ALESSANDRO FREZZATO Membro del Consiglio Generale Ass. Luca Coscioni
DOMINIQUE VELATI Militante storica radicaleENZO CUCCO Presidente Fondazione Sandro PennaPROFESSOR VALTER CORALLUZZO Docente di Scienze Politiche all’Università di Perugia
EMILIANO SILVESTRI Membro del Comitato Nazionale di Radicali Italiani
MARIO MARCHITTI Presidente dell'Associazione Rientro Dolce
per informazioni:Jolanda Casigliani 3485335307
Venerdì di questa settimana sarà ufficialmente presentata a Torino l’associazione radicale Satyagraha il cui scopo prioritario è approfondire la metodologia della nonviolenza e attuarne la prassi.
Già verso la fine degli anni Ottanta, grazie all’impegno di Laura Terni e Laura Arconti, si diede vita ad un omonimo gruppo che organizzò, tra l’altro, un bel convegno svoltosi il 29 e 30 aprile 1988 i cui atti sono stati raccolti nel libro, ormai introvabile e, a nostro avviso, meritevole di ristampa con tanto di opportuna revisione critica, “I radicali e la nonviolenza: un metodo, una speranza”.
Purtroppo, quell’associazione non durò a lungo e il nostro partito, soprattutto alla metà degli anni Novanta, privilegiando un indirizzo marcatamente economicistico, ha finito per mettere quasi in secondo piano ciò che, sin dalla sua costituzione, ne ha contraddistinto la storia e l’azione differenziandolo decisamente dalle altre componenti politiche.
Detto in altri termini, fatta eccezione per Marco Pannella, Angiolo Bandinelli e pochi altri, non è stata, a nostro avviso, sufficientemente valorizzata la scelta aprioristica, essenziale, imprescindibile, della nonviolenza.
Si è, infatti, erroneamente data per acquisita, e come per scontata, una metodologia di lotta senza analizzarne a fondo i contenuti, le implicazioni, le prospettive.
Si è così giunti addirittura ad obliare la nonviolenza, sorgente ispiratrice in perenne divenire e trasformazione, rispetto ad un’enfatica accentuazione del liberalismo, come se il secondo fosse da privilegiare rispetto alla prima e non ne fosse invece espressione diretta, consequenziale. Senza il sostrato, il collante gandhiano non sarebbe stata neppure concepibile l’intera nostra azione transnazionale, dall’Afghanistan alla proposta d’esiliare e salvare il “Caino” Saddam, dal Tibet e dai Montagnard vietnamiti al sostegno al dissenso cubano, dalla Cambogia alle proposte di accogliere la Turchia e Israele all’interno del consesso europeo, fino alla moratoria della pena di morte. La nuova associazione, nata grazie all’encomiabile, tenace, apporto di Jolanda Casigliani, dovrà adesso ovviare alla grave suddetta lacuna e ricondurre l’attenzione sulla inderogabile centralità della nonviolenza come forza generatrice di verità, speranza, mutamento sociale. Compito certamente non facile ma importante e doveroso anche alla luce dell’indebita volontà fagocitante manifestata negli ultimi tempi da componenti massimaliste eredi di ideologie totalitarie e sanguinarie e, quindi, ben distanti da concezioni libertarie e liberali.Viene, a questo punto, spontaneo soffermarsi sul nesso tra nonviolenza e liberalismo. Ne abbiamo appena accennato biasimando la mancata consapevolezza del legame intrinseco tra i due termini. Se rileggiamo attentamente la biografia gandhiana, non possiamo non accorgerci di quanto colui che più e meglio di altri è riuscito ad elaborare organicamente e tradurre in politica la nonviolenza sia debitore alle idee liberali conosciute in Inghilterra negli anni degli studi universitari e repentinamente riadattate in un contesto culturale solo apparentemente desueto. Apparentemente perché basterebbe riesaminare in modo critico la millenaria vicenda dell’India per accorgersi del liberalismo ante litteram di grandi figure come Ashoka e Akhbar nei cui confronti ha scritto pagine illuminanti Amartya Sen nel libro “L’altra India” (Mondadori, 2005). Nel suo apprendistato londinese, Gandhi non fece altro che calare e rinnovare il proprio retaggio nella visione liberale che gli veniva offerta dalla frequentazione di circoli culturalmente e politicamente progressisti nonché dall’incontro con il riformismo fabiano. E’ tutt’altro che peregrino affermare che, proprio a causa di questi contatti, la nonviolenza, così come noi oggi la conosciamo, derivi dalla sapiente sintesi gandhiana di liberalismo, tolstojanesimo (con aggiunte ruskiniane), sincretismo religioso (influenze vediche, come innanzitutto la Gita, jainiste, buddhiste, cristiane). Il nostro Aldo Capitini, che, come egli stesso tenne a precisare, da kantiano, cioè tramite la rilettura di Kant (soprattutto l’etica), divenne gandhiano, cercò di sviluppare queste suggestioni e implicazioni nella definizione del liberalsocialismo come spazio formativo, come humus, della nonviolenza. Per lui liberalismo e socialismo, entrambi privati delle forzature ideologiche e dello statalismo esasperato e totalitario presente nel secondo, dovevano essere sinonimi. In più, fu inserito un elemento nient’affatto marginale come la religiosità libera, laica, aconfessionale di derivazione mazziniana.“Il laicismo”, scrisse Capitini, “non è la soluzione ma l’invito a rispettare le diverse soluzioni, lascia il posto libero per le riforme”. Si vada, per cortesia, a rileggere “Nuova socialità e riforma religiosa” (Einaudi, 1950), un testo ancora oggi di estrema attualità e portatore di inesauribili stimoli Per il filosofo perugino, “nel difficile terreno italiano” meritano di essere considerati e apprezzati due “tentativi di europeizzazione”. Il primo è quello di Mazzini che ha avuto il coraggio di proclamarsi “scisso” dal dogma cristiano della caduta, “avverso profondamente all’istituzione religiosa tradizionale”, ansioso di “un avvenire religioso nuovo” articolatosi in “schemi di filosofia della storia”. Il suo pensiero, dice Capitini, è “come un crogiolo” in cui confluiscono vari elementi europei, dal romanticismo al democraticismo, al liberalismo del suo tempo. Il secondo tentativo è attribuito a Benedetto Croce in cui si ritrova “l’etica moderna, storicistica e antimitologica, di un mondanismo che si purifica nei valori, di un umanesimo non polemico ma di tutto comprensivo”. E, tuttavia, sia Mazzini che Croce pur avendo fatto di tutto per condurre le situazioni storiche europee “a certi punti di apertura” non sono, però, riusciti a fondare oltre. E’ questo oltre, questo al di là che Capitini intuisce affidandone il compimento, l’affermazione alla nonviolenza. Di qui la sua proposta di un liberalismo e di un socialismo identificati in una prospettiva diversa, innovativa, ontologicamente liberante, in cui viene a prefigurarsi una nuova socialità intesa come “libertà articolata nella società” e “apertura religiosa alla presenza di tutti”, costituita di aggiunte come, ad esempio, la nonmenzogna e la nonuccisione basate sulla compresenza di tutti al nostro intimo, sull’eterna realtà di tutti, sull’affetto per l’altro (ogni essere senziente, non solo, pertanto, umano) come esistente.“Secondo me”, annotava Capitini, “il liberalsocialismo deve essere il lievito della trasformazione sociale”. In quanto “sintesi continuamente voluta di libertà e di socialismo”, esso è “l’elemento dinamico che sovverte ogni irrigidimento e conservatorismo e arresto nel privilegio e nel pregiudizio”.
La nonviolenza, dunque, non solo non può fare a meno di un orientamento liberale ma è interamente inscritta in questo orizzonte di apertura e anticipazione. Da qui bisognerà partire per nuovi fermenti creativi, per immaginare nuovi orizzonti e prefigurare nuovi esiti.
notizieradicali, 9-VII-07.