(corriere.it) Il Tibet ci chiede un atto di coraggio di Dacia Maraini - 04/12/2007 |
Il Tibet ci chiede un atto di coraggio • da Corriere della Sera del 4 dicembre 2007, pag. 44 di Dacia Maraini «Dobbiamo trasformare il buddismo tibetano. Tutte quelle leggi religiose e i loro rituali debbono adeguarsi alle necessità dello sviluppo e della stabilità del Tibet, uniformandosi a una moderna società socialista... Basta con la costruzione di monasteri e con il reclutamento di monaci e suore! Ci sono delle priorità da rispettare». Queste le direttive del programma di «Educazione patriottica», nate dal Forum del Lavoro in Cina nel 1994 e portate avanti in questi anni con testarda costanza. «Crediamo che le politiche per lo sviluppo ambientale possano essere condivise sia dalla Regione autonoma Tibetana che da quella di Pechino». Ma l'amministrazione tibetana, si sa, decide secondo i voleri di Pechino che considera il Tibet un territorio da sviluppare della grande Cina. Con questa filosofia il lago sacro Megoe, antico luogo di pellegrinaggio, viene oggi minacciato di estinzione, per erigere al suo posto una enorme diga che porterà elettricità soprattutto alle industrie cinesi del bacino del Sichuan, assetato di elettricità. I tibetani protestano, ma ogni opposizione viene presa come attentato al futuro della nazione. «L'industrializzazione forzata non può che costituire un bene per il futuro del Tibet», dicono i dirigenti della grande Cina, che tutti ammiriamo per le sue capacità di lavoro e di sacrificio. «La smania di costruire monasteri, di insegnare la religione ai giovani rappresenta un pericolo oscurantista. Il futuro è nelle macchine, nel cemento, nella trasformazione del suolo in coltivazioni intensive». Curioso come tutto questo suoni al nostro orecchio come qualcosa di già sentito e già vissuto. Sono parole e pensieri di cui conosciamo le terribili conseguenze: villaggi trasformati in orrende periferie che portano criminalità, inquinamento, disadattamento giovanile e sfruttamento. Il divario fra ricchi e poveri che si fa sempre più minaccioso. Il paesaggio devastato, i fiumi deviati, l'obbligo della monocultura, le tradizioni calpestate, l'asservimento alle industrie più potenti. Nell'euforico e coatto mito del progresso il Tibet, povero e senza armi, punta sulla sua forza più profonda: la religione. Per questo i suoi monaci più prestigiosi, compreso il Dalai Lama, girano oggi il mondo cercando alleati. Per questo la Cina diffida di ogni religioso che raggiunge i conventi degli altipiani. Per questo si è scelleratamente allineata dalla parte del regime militare birmano. Oggi il governo cinese minaccia di prendersela con i politici europei che riceveranno il Dalai Lama. Usano la parola «cricca» ricordando il linguaggio maoista: «La cricca del Dalai Lama nasconde sotto la sua faccia religiosa una volontà perversa di distinzione». E cosa ci sarebbe di male a distinguersi? Ma in un regime che si autodefinisce comunista la voglia di distinzione e di indipendenza è vista come minaccia alla stabilità dell'intero Paese. Non voglio nemmeno citare le notizie di torture nelle prigioni, di monaci costretti ad abiurare o forzati ad espatriare, di cui scrivono Amnesty e altre organizzazioni internazionali. Vorrei ricordare ai nostri governanti che oltre alle politiche di interesse, esistono atti di coraggio che agiscono sull' immaginario simbolico e sono importanti per la politica internazionale. |
comunitatibetana, 5-XII-07.