Proviamo a sintetizzare le tesi sottostanti al rilancio, avvenuto a Bruxelles pochi giorni fa, del primo grande satyagraha per la pace da parte di Marco Pannella.
La pace è un obiettivo politicamente perseguibile. Il pacifismo è del tutto inadeguato a raggiungere questo obiettivo per un difetto di analisi. I pacifisti tendono infatti a individuare le cause delle guerre nel neo-imperialismo americano, negli interessi petrolifici, in generale nel potere degli interessi economici occidentali. Quello che distingue i radicali dai pacifisti è anzitutto un'analisi alternativa della causa strutturale, e non contingente, delle guerre: la sovranità nazionale assoluta.
Questa analisi di tipo generale trova nel Medio Oriente, e in particolare nella situazione in cui si trova Israele, un importante banco di prova.
Pur rappresentando potenzialmente un avamposto della democrazia in Medio Oriente, Israele si trova in una posizione di estrema debolezza, rappresentando appena lo 0,2% del territorio dell'area geopolitica in cui si situa. Il perenne stato di guerra ha portato a un deperimento delle istituzioni e garanzie democratiche all'interno dello stato di Israele, mentre le relazioni con i paesi confinanti sono caratterizzati dalla minaccia se non dall'uso frequente della forza militare. La sovranità assoluta dello stato d'Israele, afferma Pannella, rappresenta un pericolo per sè e per il mondo, dato che un conflitto in quell'area potrebbe in poco tempo estendersi a livello globale.
La causa principale di questo possibile conflitto è rappresentata dal fatto che alla sovranità nazionale israeliana, condizione che crea pericolo anzitutto allo stato israeliano e ai suoi cittadini, si contrappone la rivendicazione della sovranità nazionale assoluta di uno stato palestinese, il cui territorio è in parte conteso con Israele. Questa rivendicazione, sostenuta da gran parte dell'opinione pubblica mondiale, in particolare nel mondo arabo, rappresenta un inganno enorme, perché la sovranità nazionale assoluta non garantisce affatto maggiore giustizia e diritti, anzi nella maggior parte dei casi, soprattutto in quella regione, è lo strumento che consente l'esercizio indisturbato di un potere autocratico e oppressivo da parte di classi dirigenti inamovibili e autoritarie.
La dimostrazione della validità di quest'analisi è contenuta nella proposta politica che la sostanzia, l'ingresso di Israele nell'Unione europea. Questa storica proposta di Marco Pannella ha un carattere strategico rispetto al raggiungimento della pace nella regione perché:
- se Israele divenisse parte dell'Unione europea cambierebbero i rapporti di forza nella regione. I paesi che vogliono la cancellazione dello stato di Israele si troverebbero a dover muovere guerra non più a uno stato che ricopre lo 0,2% del territorio, ma a un intero continente di centinaia di milioni di abitanti:
- le istituzioni israeliane si troverebbero a dover rispondere delle proprie decisioni a organi sovranazionali di tutela dei diritti umani, e la loro politica estera sarebbe sottoposta ai vincoli dell'appartenenza a una comunità politica più vasta;
- si aprirebbe la prospettiva di un ingresso nell'Unione europea di altri paesi mediorientali, rafforzando gli elementi culturali, economici e politici che uniscono i paesi che si affacciano sul mediterraneo, piuttosto che respingerli sotto l'egemonia di altri stati non democratici.
E' chiaro che questa proposta è fondata su assunti non dimostrabili, come d'altronde tutte le proposte davvero innovative. Gli eventi politici non sono prevedibili meccanicisticamente, soprattutto in situazioni complesse e delicate come quella che caratterizza il Medio Oriente. Tuttavia, oltre per l'originalità, la proposta di Marco Pannella si distingue per un'analisi delle relazioni internazionali che, identificando nella sovranità nazionale assoluta la causa principale delle guerre, presume che la limitiazione della sovranità nazionale sia potenzialmente benefica. Quello che occorre quindi approfondire è l'analisi delle relazioni internazionali che sta dietro la proposta di Pannella, e cioè la visione federalista. Una visione che affonda le sue radici nel pensiero di Immanuel Kant, Lord Lothian, Luigi Einaudi, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni.
La struttura bellicosa della stato nazionale sovrano
Si legge nel Manifesto di Ventotene scritto da Ernesto Rossi e Altiero Spinelli dal confino politico nel tra il 1941 e il 1941:
La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi, poiché ciascuno si sente minacciato dalla potenza degli altri e considera suo "spazio vitale" territori sempre più vasti, che gli permettano di muoversi liberamente e di assicurarsi i mezzi di esistenza, senza dipendere da alcuno. Questa volontà di dominio non potrebbe acquetarsi che nella egemonia dello stato più forte su tutti gli altri asserviti. In conseguenza di ciò, lo stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi tenuti a servizio, con tutte le facoltà per renderne massima l'efficienza bellica. Anche nei periodi di pace, considerati come soste per preparazione alle inevitabili guerre successive, la volontà dei ceti militari predomina ormai in molti paesi su quella dei ceti civili, rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi.
E' questa la radice dell'analisi federalista, il carattere strutturalmente bellicoso di relazioni internazionali fondate sul principio della sovranità nazionale assoluta. Il Manifesto di Ventotene non era la prima manifestazione di questa analisi. Si trattava piuttosto dell'attualizzazione in un progetto politico di una più antica corrente di pensiero, quella federalista, che traeva origina da Immanuel Kant, uno dei nomi tutelari iscritti nel fondale della conferenza di Bruxelles.
Il legame tra federalismo e pace
Il progetto federalista è fin dalle sue origini intimamente legato al perseguimento della pace internazionale. Il saggio di Kant del 1795 si intitola non a caso "Per la pace perpetua".
La causa strutturale della guerra, secondo Kant, risiede nel fatto che i rapporti tra gli stati si trovano ancora nello stadio del bellum omnia contra omnes. Le società umane avevano già superato quello stadio del processo evolutivo in cui le relazioni tra individui sono di carattere pregiuridico, affidate alla legge della giungla, quella del più forte, e si erano evolute con la creazione dello stato moderno, dove il monopolio della forza da parte di un'autorità centrale ha consentito una regolamentazione dei rapporti sociali fondata sul diritto. Nel campo della relazioni internazionali, invece, ogni stato deve ancora "farsi giustizia da sè", mancando un'autorità internazionale in grado di dirimere i conflitti, affermare la legalità, esercitare, quando necessario, la forza, impedendo ai singoli stati di ricorrere alla violenza per risolvere le dispute.
La situazione del Medio Oriente persiste e si aggrava da decenni. Si tratta, dunque, di una situazione strutturale che produce in quanto tale conflittualità costante, e conflitti sempre più gravi continui.
Pannella tenta di ricreare quella consapevolezza della crisi dello stato nazione, e della sua pericolosità, che caratterizzò la seconda guerra mondiale e l'immediato dopoguerra, portando il processo di allargamento europeo fino ai territori attualmente devastati dalla guerra. La ex Jugoslavia e Israele sono i territori in cui si è espresso questo tentativo, il cui obiettivo non è solo quello di far entrare nell'Unione europea paesi che ne trarrebbero benefini, ma anche quello di rinvigorire l'Europa, la coscienza della sua missione, e la consapevolezza del significato della sua unità.
Si tratta della continuità di un metodo politico, oltre che di una comune visione strategica. Come scrive Lucio Levi nel saggio "Altiero Spinelli, fondatore del movimento per l'unità europea" pubblicato nella riedizione del Manifesto di Ventotene realizzata da Mondadori, «L'arte della creazione politica sta nell'identificare le circostanze che aprono uno spazio all'azione».
Un progetto che richiede soggetti politici transnazionali...
Già in una lettera di Ernesto Rossi indirizzata alla madre del 30 aprile 1937, quindi diversi anni prima della stesura del Manifesto, troviamo sintetizzati i principi fondamentali che Rossi intendeva allora trattare in un saggio sull'unità europea e sul federalismo:
1) introduzione storica: parallelo tra l'unificazione italiana e l'unificazione europea. In entrambi i casi l'unificazione avverrà grazie all'azione di un partito che sappia approfittare dell'occasione favorevole; il popolo svilupperà una coscienza europeista a seguito della realizzazione della federazione;
2) i termini del problema: l'Europa destina gran parte delle sue risorse a preparare la guerra, conseguente pericolosa crescita del potere delle élistes militari e dell'accentramento amministrativo;
3) vantaggi della federazione: maggiori risorse per lo sviluppo, soluzione del problema delle minoranze;
4) ostacoli alla realizzazione dell'Unità: ideologie nazionaliste, ordinamenti antidemocratici, interessi costituti;
5) il quadro politico internazionale favorevole del dopoguerra per: crollo delle grandi monarchie imperiali, manifesto insuccesso della Sdn e necessità di trovare soluzioni alternative, favore popolare all'idea federalista, evoluzione in senso europeista della posizione britannica;
6) il metodo: insufficienza degli accordi settoriali, inizio federale intorno a un nucleo di paesi latini, aperto a successive adesioni.
E' incredibile come in piena guerra mondiale, l'Italia negli anni più bui del regime fascista, Ernesto Rossi immaginasse già il compito che sarebbe spettato ai democratici subito dopo il crollo del regime. Un compito tutt'altro che facile. Anche nelle pagine del Manifesto di Ventotene la liberazione era immaginata con lucidità, non come momento epico e salvifico, ma come un delicato passaggio pieno di insidie. La soluzione federalista rappresentava una soluzione in grado di mettere a riparo la transizione democratica dalla reazione degli interesse costituiti.
Le forze reazionarie hanno uomini e quadri abili ed educati al comando, che si batteranno accanitamente per conservare la loro supremazia. Nel grave momento sapranno presentarsi ben camuffati, si proclameranno amanti della libertà, della pace, del benessere generale, della classi più povere. (...) Il punto sul quale esse cercheranno di far leva sarà la restaurazione dello stato nazionale. Potranno così far presa sul sentimento popolare più diffuso, più offeso dai recenti movimenti, più facilmente adoperabile a scopi reazionari: il sentimento patriottico.
Ecco dunque Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi porsi il problema del soggetto politico in grado di lottare per portare e compimento il progetto federalista. Un soggetto politico che doveva costruire nuove istituzioni, e che quindi non poteva limitarsi a lottare per la conquista del potere all'interno dello stato nazionale. Scriveva Eugenio Colorni nella prefazione del Manifesto:
i partiti politici esistenti, legati ad un passato di lotte combattute nell'ambito di ciascuna nazione, sono avvezzi, per consuetudine e per tradizione, a porsi tutti i problemi partendo dal tacito presupposto dell'esistenza dello stato nazionale, e a considerare i problemi dell'ordinamento internazionale come questioni di "politica estera", da risolversi mediante azioni diplomatiche e accordi fra i vari governi.
Una condizione strutturale della lotta politica avvertita dai cittadini come naturale, l'unica possibile, «dato che per le masse popolari l'unica esperienza politica finora acquisita è quella svolgentesi entro l'ambito nazionale».
Per ribaltare questa situazione, l'unica strada possibile era quella della creazione di un soggetto politico che si ponesse come obiettivo prioritario quello del federalismo europeo. «La linea di divisione fra partiti progressisti e partiti reazionari - si legge nel Manifesto di Ventotene - cade perciò ormai non lungo la linea formale della maggiore o minore democrazia, del minore o maggiore socialismo da istituire, ma lungo la sostanziale nuovisissima linea che separa quelli che concepiscono come fine essenziale della lotta politica quello antico, cioè la conquista del potere politico nazionale - e che faranno, sia pure involontariamente, il gioco delle forze reazionarie (...) - e quelli che vedranno come compito centrale la creazione di un solido stato internazionale».
Il Partito radicale decide pertanto di portare a compimento la propria trasformazione in soggetto politico transnazionale, non più solo nelle sue finalità politiche, ma anche nella concretezza della sua realtà associativa. Il Pr da questo momento si propone come strumento di organizzazione politica, oltre ed attraverso le frontiere nazionali, aperto alla partecipazione anche di appartenenti a diversi partiti nazionali. Il Partito radicale in quanto tale non parteciperà pertanto alle competizioni elettorali nazionali.
Gli anni successivi hanno dimostrato la maturità di quella decisione politica. Dal 1988 ad oggi, infatti, la lotta politica è venuta assumendo sempre più dimensioni transnazionali. Basti pensare al cosiddetto movimento no global, ma anche a campagne popolari come quella contro le mine antiuomo, a organizzazioni come la Open Society Institute o ancora allo scambio di esperienze e tecniche tra i movimenti nonviolenti dell'Europa dell'est come Otpor, Kmara e Pora (vedi il libro di Sidney Tarrow, "The new transnational activism"). I radicali restano tuttavia gli unici ad essersi posti, partendo da sè stessi, il problema della creazione di meccanismi istituzionali e giuridici in grado di ricondurre nell'ambito del diritto, e quindi della democrazia, le nuove dimensioni assunte dall'agorà politica.
... e istituzioni transnazionali
Il Manifesto di Ventotene e i radicali condividono anche l'analisi dell'inadeguatezza delle organizzazioni internazionali. Allora si trattava della Società delle nazioni, ma la stessa analisi è facilmente riconducibile anche al sistema delle Nazioni Uniti.
E' ormai dimostrata l'inutilità, anzi la dannosità di organismi sul tipo della Società delle Nazioni, che pretendeva di garantire un diritto internazionale senza una forza militare capace di imporre le sue decisioni e rispettando la sovranità nazionale assoluta degli stati partecipanti. Assurdo è risultato il principio del non intervento, secondo il quale ogni popolo dovrebbe essere lasciato libero di darsi il governo dispotico che meglio crede, quasi che la costituzione interna di ogni singolo stato non costituisse un interesse vitale per tutti gli altri paesi europei.
Ritroviamo qui il principio del dovere di ingerenza negli affari interni degli stati, formulato dai radicali in occasione della campagna contro lo sterminio per fame nel mondo, e il senso di battaglie come quella per il tribunale penale internazionale e la moratoria della pena capitale, tentativi di far avanzare la sovranità del diritto internazionale a scapito di quella degli stati nazionali.
L'illusione dello stato palestinese
L'illusione che ha accomunato storicamente molti popoli è che l'indipendenza nazionale sia lo strumento per garantire l'uguaglianza tra le nazioni. Ma questo è del tutto falso. L'ineguale distribuzione del potere politico ed economico tra gli stati fa sì che i rapporti internazionali siano dominati da rapporti di forza egemonici degli stati più potenti sugli stati più deboli. L'uguaglianza può essere garantita soltanto dalla legge, ma nel rapporto tra stati il diritto internazionale soccombe ai rapporti di forza proprio a causa della sovranità nazionale assoluta. Quello che la proposta del primo satyagraha tenta di sollevare, è proprio l'illusorietà di una soluzione della questione palestinese tutta affidata alla promessa di uno stato nazionale sovrano.
Tuttavia, come una consolidata corrente storiografica e politologica sostiene, le nazioni sono "comunità immaginarie", create attraverso il linguaggio e i simboli. Il fatto che non siano comunità innate e naturali, tuttavia, non rende meno forte ed emotivo il legame che creano tra gli individui. Il progetto del satyagraha mondiale per la pace si dovrà confrontare anche con il potere simbolico dell'appartenenza nazionale, e trovare il modo di coniugare il senso di appartenenza con l'innegabile forza di attrazione (o "soft power") dell'Europa. I sondaggi effettuati tra gli israeliani fanno ben sperare.
notizieradicali, 14-XII-07