Diego Galli
La democrazia è un modello di governo più popolare che mai a livello mondiale. In quasi tutti i paesi del mondo nei numerosi sondaggi internazionali effettuati negli ultimi anni la democrazia è il sistema di governo preferito. Allo stesso tempo, nei paesi democratici, i politici sono una delle categorie professionali meno apprezzate, paradossalmente assai meno dei leader religiosi, delle forze dell'ordine e di altri rappresentanti di istituzioni non democratiche.
L'ampiezza del disimpegno e del disincanto rispetto alla politica è tale che gli scopi delle politiche democratiche possono essere sabotati dalla mancanza di fiducia delle persone nei confronti del sistema.
I radicali hanno sempre indicato nell’illegalità delle istituzioni il pericolo maggiore per la tenuta della democrazia, e denunciano l’ormai fuoriuscita dell’Italia dal novero dei paesi democratici. Proprio il livello di degenerazione raggiunto dal nostro sistema politico rende l’Italia una sorta di avamposto di fenomeni che tuttavia riguardano in gradi diversi tutti i paesi democratici. Inoltre, la battaglia per la legalità non può più essere condotta in solitudine dai radicali. Deve coinvolgere ampi settori della cittadinanza, contaminare altre lotte politiche, divenire movimento sociale.
In questo articolo proveremo a riassumere lo stato del dibattito politologico sullo stato della democrazia nel mondo e sulle possibili soluzioni proposte. Allo stesso tempo, l’obiettivo di questo approfondimento non è soltanto teorico. Lo proponiamo come base per un appuntamento sulla democrazia da tenersi ai primi di ottobre, con il coinvolgimento di studiosi, comitati di cittadini, associazioni, per elaborare una piattaforma di risposta e un programma di attivazione di strumenti di democrazia diretta locale su tutto il territorio italiano.
I segnali della crisi
Disinteresse e sfiducia
I dati dell’ultimo rapporto sugli Italiani e lo Stato realizzato dall’osservatorio Demos & PI di Ilvo Diamanti, risulta un ulteriore incremento della sfiducia nei confronti delle istituzioni.
La graduatoria delle istituzioni vede le Forze dell'Ordine al primo posto (73%), seguite dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (56%) e dalla Chiesa (54%). Chiudono la classifica le Banche (20%), il Parlamento (15%) e i Partiti (8%).
Scrive Diamanti che «La sfiducia ha smesso di essere un vizio, un problema. Si è trasformata in un sentimento "normale". Quasi un "carattere nazionale". Gli italiani: creativi, fantasiosi. E poi: sfiduciati e diffidenti. Nei confronti dello Stato, del pubblico; ma anche del privato».
Due su tre ritengono che, ormai, non vi siano più grandi differenze tra i partiti. Metà degli italiani pensa che "senza partiti non vi sia democrazia"; ma il 40% circa sostiene che anche senza partiti la democrazia possa funzionare egualmente bene.
Secondo la ricerca Iref del 2006, tra il 2002 e il 2006 la percentuale di italiani che credono nell’efficacia degli organi di governi democratici è calata del 12,3% raggiungendo il livello del 20% della popolazione. Solo il 20,4% ritiene che il parlamento sia in grado di fornire risposte risolutive alla cittadinanza, contro il 33,7% del 2002.
Il calo della partecipazione elettorale
La percentuale dei votanti è in continua diminuzione in tutti i paesi democratici. In occasione delle ultime elezioni politiche italiane l’Istituto Cattaneo ha diramato il seguente comunicato stampa (Cattaneo.org, 2008):
“Nelle elezioni politiche appena concluse, l’incidenza di non votanti ha sfiorato il 20% (19,5%), con un sensibile aumento rispetto alle precedenti elezioni del 2006.
La non partecipazione al voto é in continua crescita in Italia a partire dalle elezioni del 1976 (quelle del temuto “sorpasso” dei Pci su Dc, che videro la più alta partecipazione al voto degli ultimi 45 anni). La crescita dell’astensionismo apparentemente si interruppe nelle scorse elezioni del 2006, ma si trattò di una sorta di illusione ottica, dovuta al fatto che a partire da quell’anno gli elettori residenti all’estero (e caratterizzati da un alto tasso di non partecipazione) furono scorporati dall’elettorato nazionale, potendo votare nella circoscrizione “estero”.
In ogni caso, l’incremento di astensionismo che si è verificato il 13-14 aprile 2008 é stato uno dei maggiori, rispetto alle elezioni precedenti, di tutta la storia repubblicana: +3,1 punti percentuali, di poco inferiore all’incremento massimo di +3,2 punti percentuali delle elezioni del 1996”.
I partiti politici si fanno “cartello”
Riporto un’efficace sintesi effettuata da Pier Vincenzo Uleri su Notizie Radicali della tesi del “Partito cartello”, una delle più accreditate nell’ambito dello studio sulle trasformazioni dei partiti.
«Secondo due autorevoli studiosi, Richard Katz e Peter Mair: “negli ultimi decenni c’è stata la tendenza verso una simbiosi sempre più stretta fra partiti e stato. Questo fatto ha precostituito le condizioni per la comparsa di un nuovo tipo di partito, denominato e definito come cartel party.”
Secondo i due studiosi: “si può ipotizzare che il movimento dei partiti dalla società civile verso lo Stato possa continuare fino a farli diventare parte dello stesso apparato statale”.
Una tendenza generale al declino della partecipazione dei cittadini nelle organizzazioni di partito ha costretto e costringe i partiti a cercare altrove, rispetto al passato, le risorse necessarie alle loro attività:
“La principale strategia che potevano perseguire era quella di istituire norme per la distribuzione di sovvenzioni statali ai partiti politici che, pur variando da Stato a Stato, ora spesso costituiscono una delle principali risorse finanziarie e materiali con cui i partiti possono svolgere le loro attività sia in parlamento che nella società in senso lato. (…)
Analogamente, le regole che disciplinano l’accesso ai media elettronici, che …sono soggetti a notevole controllo e/o regolamentazione da parte dello Stato, offrono a chi è al potere il mezzo per avere un accesso privilegiato, mentre a chi è ai margini questo potrebbe essere negato”.
Nei sistemi politici caratterizzati da forte presenza di cartel parties, “la democrazia elettorale è sempre più percepita come mezzo attraverso cui i governanti controllano i governati piuttosto che viceversa”. [La traduzione italiana del saggio di Katz e Mair (1995) è nel volume Partiti e Sistemi di Partito curato da Luciano Bardi, Bologna, il Mulino, 2006]».
La tesi di Mair e Katz sono in parte contestate. Oreste Massari evidenzia le osservazioni di altri politologi che mettono in rilievo come le trasformazioni evidenziate possano rappresentare non tanto il tentativo dei partiti di colludere, quando un adattamento al cambiamento socioeconomico circostante. Ad ogni modo, che la causa di questa trasformazione dei partiti sia rintracciabile al loro interno o all’esterno, resta il fatto che i partiti si stanno allontanando dalla società.
La democrazia rappresentativa si basa sui partiti, che sono gli strumenti indispensabili al suo funzionamento. Il fatto che soltanto l’1,7% della popolazione italiana partecipi ad attività dei partiti e soltanto il 2,7% contribuisca volontariamente ad essi (rapporto Istat 2005) è un altro dato che dimostra una crisi di fiducia e partecipazione di carattere strutturale.
Il distacco delle associazioni di cittadini dalla società
Contemporaneamente, sul lato delle organizzazioni politiche, si assiste a una progressiva professionalizzazione e distacco dalla base (gli studiosi anglosassoni parlano di “partecipazione con la carta di credito”). Sia i partiti che le organizzazioni di cittadini sono dirette da leader e personale qualificato, mentre il coinvolgimento dei cittadini comuni si ferma alla richiesta di contributi. Le risorse necessarie all'attività politica di queste organizzazioni derivano dall'accesso ai media e alle istituzioni, non dalla partecipazione diretta dei cittadini alle loro iniziative.
Se questo è l’andamento generale nelle democrazia avanzate evidenziato da Gerry Stoker, in Italia se possibile c'è un aspetto ancora più negativo. La maggior parte delle risorse delle cosiddette associazioni della società civile, infatti, deriva dallo Stato piuttosto che dai cittadini. Prendendo l’esempio delle associazioni dei consumatori, sul Sole 24 Ore Domenico Lusi e Andrea Marini (“Associazioni garantite dai fondi pubblici”, 12/2/2007) scrivono: «dall’esame dei bilanci 2005 delle associazioni emerge infatti che in media il 70% delle loro entrate proviene dai fondi messi a disposizione dal ministero dello Sviluppo economico, dalle Regioni e dall’Unione europea, oltre che dalle banche, come nel caso dei progetti di conciliazione. E’ invece in genere minimo l’introito derivante dai tesseramenti: il 5 per cento appena».
La diseguaglianza politica si fa strutturale
Nel suo ultimo libro il politologo americano Robert A. Dahl, partendo dall’esame dei dati sulla crescente diseguaglianza socioeconomica all’interno delle società democratiche e sulla costante diminuzione della mobilità sociale anche negli Stati Uniti, traccia una ricaduta terribile sulle sorti della democrazia:
«L’accumulo diseguale di risorse politiche suggerisce una possibilità inquietante: le diseguaglianze politiche possono aumentare, per così dire, fino a giungere ad un livello irreversibile. Il vantaggio complessivo in termini di potere, influenza e autorità dei ceti privilegiati può diventare talmente forte che, anche se gli americani meno fortunati costituiscono la maggioranze dei cittadini, sono tuttavia semplicemente incapaci, e forse riluttanti, a compiere lo sforzo necessario per vincere le forze della disuguaglianza schierare contro di essi.
Questo scenario pessimistico acquista maggiore plausibilità se ammettiamo che per gran parte dei cittadini americani la quantità di tempo disponibile, o la quantità di tempo che sono intenzionati da rendere disponibile sottraendole ad altre attività, resterà identica a quella del passato. I costi della lotta politica potrebbero dunque diventare talmente elevati che soltanto un numero eccessivamente esiguo di cittadini americani sarebbe disposto a sopportare i sacrifici, i termini di tempo e di altre risorse, necessari a sconfiggere le risorse soverchianti dei ceti più elevati, i quali reagirebbero tempestivamente a difesa delle proprie posizioni di privilegio» (Dahl 2007, pp. 80-1).
Se aggiungiamo che come evidenziano i dati riportati sopra il tempo messo a disposizione dai cittadini per attività politiche è in realtà in diminuzione, mentre è in costante aumento il costo dell’attività politica e le risorse a disposizione delle oligarchie politiche (vedi la tesi del partito cartello), la previsione di Dahl si fa ancora più fosca e plausibile.
Le cause
Secondo Gerry Stoker la ragione principale della crisi della democrazia è rintracciabile nel calo di fiducia nella politica e nell’incrementi di atteggiamenti cinici e di disinteresse.
Secondo Stoker non ci sono ragioni oggettive attribuibili al sistema o alla classe politica che spieghino il crescente distacco dei cittadini dalla politica. L'idea diffusa che i politici mentano è basata su pregiudizi e non fatti. Non c'è alcuna evidenza che i politici mentano più oggi di quanto non facessero prima, quando i livelli di fiducia nei loro confronti erano più elevati.
«In un certo senso non ci sarebbe bisogno della democrazia se potessimo sempre fidarci dei nostri leader: abbiamo strumenti di controllo democratici proprio perché in questo modo possiamo chiedere ai nostri leader di rispondere delle loro azioni e affermazioni». (Stoker 2007, p. 131)
Il cinismo derivante da questi atteggiamenti è in un certo senso più pericoloso delle eventuali bugie dei politici. Il cinismo infatti diventa una ricetta per l'inazione. L'ampiezza del disimpegno e del disincanto rispetto alla politica è tale che gli scopi delle politiche democratiche possono essere sabotati dalla mancanza di fiducia delle persone nei confronti del sistema.
Anche altre spiegazioni, come la sottrazione di sovranità allo stato causata dalla globalizzazione, la corruzione, l’avanzamento della tecnologia e della scienza fuori dal controllo dei cittadini, il venir meno dei legami sociali, non convincono Stoker, che ricerca le spiegazioni piuttosto in atteggiamenti culturali dei cittadini.
Anzitutto, il cosiddetto crollo delle ideologie, visto generalmente come il definitivo trionfo della democrazia liberale, ha in realtà comportato il venire meno della capacità dei discorsi e delle visioni politiche di facilitare la lettura del mondo e motivare l'azione. Ci sono meno certezze sulle soluzioni più adeguate ai problemi sociali, le divisioni sono meno chiare e le persone sono meno pronte a impegnarsi per sostenere visioni utopistiche.
Una parte della spiegazione della disillusione nei confronti della democrazia risiede poi secondo Stoker in interpretazioni e idee errate sul suo reale funzionamento. L'idea ad esempio che si possa comprendere il funzionamento della democrazia facendo affidamento alla metafora del mercato (scelta-acquisto-giudizio) è del tutto errata. Mentre il mercato è un meccanismo per regolare la soddisfazione di scelte individuali effettuate dai consumatori, la politica riguarda sempre una scelta collettiva tra interessi, domande e opinioni conflittuali. In altre parole la politica non riguarda scelte individuali, ma decisioni collettive.
Il mercato non comporta la soddisfazione immediata dei bisogni, tuttavia la scelta tra quali beni consumare e a quali rinunciare per magari poterne godere in futuro è effettuata a livello individuale. In politica, invece, è imposta da una decisione collettiva: ricevi quello che il sistema ha deciso che tu riceva. Non è così strano che quindi non sia così popolare.
Al contrario del mercato, inoltre, l'individuo insoddisfatto non può semplicemente “uscire” e rivolgersi a un altro venditore. Ha la possibilità di far valere i suoi diritti soltanto esprimendosi, facendo valere le sue ragioni, agendo politicamente.
Tuttavia, secondo Stoker, il discorso e la pratica della scelta individuale, della soddisfazione dei bisogni tramite il mercato e dell'espressione delle preferenze dei singoli è divenuta così pervasiva nella comunicazione e nella cultura odierna che si fa sempre più fatica ad accettare le contraddizioni e le difficoltà intrinseche al processo decisionale democratico.
Anche la natura dell'attivismo, pur così scarso, sta cambiando e assume forme sempre più individualizzate. «La crescita dei boicottaggi, delle proteste e di altre forme di attivismo sembrano avere un aspetto consumeristico, e l'attivismo può essere in pericolo di divenire più l'affermazione di uno stile di vita che un coinvolgimento serio. Ci si impegna in campagne e proteste come parte di un portfolio di attività professionali e evasive che possono esprimere la propria identità etica, ma non un coinvolgimento con le questioni complesse che ci sono sotto. L'attivismo infatti troppe spesso sembra essere poco più che una sofisticata forma di consumismo per i più agiati, che consente di avere miglior accesso alle risorse e alle decisioni pubbliche e un'espressione relativamente non dispendiosa della propria identità e delle cause favorite». (Stoker 2007, p. 88)
Il fatto che il coinvolgimento nei processi formale della vita democratica sia così basso, come dimostra il tasso calante di partecipazione al voto e di iscrizione ai partiti politici, sarebbe in parte una conferma di questo trend verso un attivismo poco connesso con i reali processi decisionali democratici.
Un altro trend messo in luce da alcuni studiosi è rappresentato dalla tendenza a forme di partecipazione individuali, orientate all'ottenimento di un migliore accesso ai servizi pubblici per un uso individuale, attraverso un rapporto diretto con l'amministrazione pubblica, senza alcun coinvolgimento collettivo o su questioni più ampie. Si parla in questo proposito di cittadinanza atomizzata e di privatizzazione del coinvolgimento politico.
«Se in questo mondo individualizzato, inoltre, perdiamo la fede nella capacità della nostra azione collettive a causa delle forze della globalizzazione e altri sviluppi, allora la politica diventa una farsa senza speranza e inevitabilmente frustrante. Se non c’è capacità collettiva allora non ha senso la politica. La politica riguarda decisioni collettive, il bilanciamento di conflitti e la cooperazione allo scopo di promuovere obiettivi umani. Se tutto quello che c’è è la scelta individuale, e il resto è destino – un prodotto di forze che non possiamo sperare capire e non dovremmo desiderare di controllare – allora non c’è da stupirsi che i cittadini diventino disincantati e alienati dalla politica nelle democrazie». (Stoker 2007, pp. 203-4)
Sia Dahl che Stoker individuano nella cultura e negli atteggiamenti mentali prodotti dal consumismo una delle maggiori cause del crescenti declino di interesse per la politica:
«Nel mondo indaffarato dei mercati e dell’espressione individuale di sé stessi, e nella cultura pubblica che il capitalismo ha formato nelle nostre società, cè il pericolo che stiamo perdendo non solo la volontà, ma anche le capacità e le sottigliezze della mente e del cuore necessarie per fare politica. (…) La politica importa perché è anch’essa un ingrediente di quello che è necessario per una buona vita. Riguarda il riconoscere che coloro che sono affetti da una decisione hanno il diritto di dire la loro su di essa e che in un mondo complesso dove le nostre vite si intersecano e sovrappongono con quelle di così tante persone dobbiamo trovare modi di comunicare, accordarci sul disaccordo e cooperare». (Stoker 2007, p. 206)
Un rimedio peggiore del male: il populismo
Scrive Stoker che «nel passato il populismo è stato associato con ideologie e credi politici oppressivi e intolleranti come il nazismo che erano apertamente antidemocratici. Ma il populismo oggi trova le sue maggiori espressioni all'interno delle democrazie (...). Queste forme moderne del populismo non propongono di abolire le elezioni libere o installare una dittatura: al contrario, la loro domanda è quella di una democrazia che “consegna quello che la gente vuole”». (Stoker 2007, p. 132)
Anche se può in alcuni casi avere una funzione positiva nel far emergere questioni sottovalutate, il populismo tende ad essere illiberale in quanto basato sulla pretesa di detenere la verità. Questo porta a considerare chi la pensa diversamente come un bugiardo o un incompetente, non come qualcuno che ha un'opinione diversa. Inoltre, il populismo crea una polarizzazione semplicistica tra l'establishment politico e i cittadini. L'assunto di fondo su cui si basa è che i cittadini hanno tutte le competenze e le capacità politiche e morali per prendere le decisioni più sagge se solo gli si da la possibilità di esprimerle. I cittadini non necessitano di cambiare o di allenarsi alla palestra della democrazia. Basta il loro senso comune come guida per assumere le decisioni migliori.
«La mia principale difficoltà con il populismo moderno – scrive Stoker – è che continua a chiedere l'impossibile al sistema politico: la politica non può funzionare nel modo in cui i populisti vogliono. Il populismo non rispetta le caratteristiche principali della politica – la ricerca del compromesso tra interessi diversi, la necessità di comprendere le posizioni altrui e la complessità dell'implementazione. Non lo fa perché non consente la presenza di differenze tra i cittadini. Sostiene che il popolo sia uno e che la sua voce, se propriamente compresa, ha un messaggio unitario e unificante. Il popolo parla e il governo dovrebbe agire per realizzare i suoi desideri. Qualsiasi cosa si frapponga al funzionamento di questo meccanismo è un malfunzionamento – o, peggio, un atto di sabotaggio deliberato – da parte di altri attori o interessi politici. (...)
La narrazione del populismo ritrae spesso gli oppositori come malvagi invece che semplicemente persone con diversi interessi e punti di vista, prendendo spesso un tono emotivo che può indebolire il ruolo della ragione, dei fatti, del rispetto e delle regole nel processo politico». (p. 139)
Tuttavia il successo di leader, partiti e movimenti populisti ci dice qualcosa di importante sul significato della democrazia e sulle possibilità per la politica di tornare a coinvolgere i cittadini.
«L’attrazione del populismo nella politica democratica odierna ci dice qualcosa di molto importante. (…) La democrazia non può essere venduta soltanto come una ricetta per una vita quieta. L’obiettivo di un sistema politico liberale e tollerante è attraente e positivo ma non è abbastanza se l’entusiasmo insito nella democrazia deve essere sostenuto. La politica democratica deve fornire anche la prospettiva di una capacità di redenzione, una sensazione che il controllo popolare è conquistabile, in alcune occasioni, in un determinato momento, su alcune questioni». (p. 145)
La partecipazione come risposta più adeguata al governo della complessità
Non ci sono soltanto ragioni civili a favore di un rinnovata partecipazione politica.. Se i sistemi politici democratici vogliono riuscire a governare il ritmo rapido dei cambiamenti e la crescente complessità sociale ed economica, la partecipazione dei cittadini potrebbe rappresentare una risorsa indispensabile.
Gli ingegneri usano un termine tecnico per descrivere un sistema privo di feedback: “stupido”.
Più partecipazione significa anche più informazioni, un apprendimento più efficace da parte del sistema politico, e quindi decisioni migliori.
Inoltre, la complessità del governo attuale fa sì che la partecipazione dei cittadini sia indispensabile non solo nel momento decisionale, ma anche nell’implementazione delle decisioni, in campi come la tutela dell’ambiente, l’educazione, la salute.
Una concezione puramente liberale dello stato, confinato all’interno delle sue prerogative e quindi isolabile della società civile, non è più adatta a rappresentare la realtà odierna delle nostre società. La crescita del welfare e dei campi di intervento dello stato, dalla bioetica alla scienza alla medicina, una spesa pubblica che arriva a rappresentare la metà del prodotto interno lordo, fanno sì che il governo non possa essere più un’istituzione separabile e isolabile: di fatto fa parte di ogni aspetto delle nostre vite.
In sempre più campi di sta dimostrando l’efficacia di sistemi che affidano le scelte decisionali alla collettività. Si parla sempre più spesso, dalla produzione di software open source, alla qualità riscontrata nelle voci dell’enciclopedia online Wikipedia, a numerose processi di innovazione industriale (si veda il libro “Wikinomics. La collaborazione di massa che sta cambiando il mondo”, Rizzoli, 2007), di “intelligenza collettiva”. Nelle adeguate condizioni o presupposti (diversità di opinione, indipendenza, decentramento e aggregazione), le folle si dimostrano più sagge delle élite competenti. Come scrive il giornalista del New Yorker James Surowiecki nel suo libro sull’argomento: «Forse le decisioni che prendono le democrazie non dimostrano la saggezza della folla. La decisione di prenderle democraticamente, invece, sì» ( “La saggezza della folla”, Fusi orari, 2007, p. 279).
Disegnare nuovi strumenti della democrazia
Le forme di coinvolgimento dei cittadini si sono accresciute molto negli ultimi anni e sono stati condotti un numero notevole di esperimenti in diversi ambiti che possono essere raggruppati come consultivi (come in Inghilterra sugli ogm), deliberativi (l’esempio maggiore è l’assemblea deliberativa di un campione de
i cittadini canadesi per formulare una riforma del sistema elettorale poi sottoposta a referendum popolare), di co-governo (il bilancio partecipativo di Porto Alegre), diretti (i referendum) e di democrazia elettronica (un esempio di successo è quello del Minnesota E-Democracy).
In un libro collettaneo pubblicato di recente, Gianfranco Pasquino (2007) ha raccolto alcuni saggi monografici su alcuni strumenti della democrazia diversi da quelli classici: elezioni primarie, referendum e iniziative popolari, comunicazione politica, democrazia elettronica, democrazia deliberativa. Secondo Pasquino occorre valutare questi strumenti seguendo quattro diversi criteri, sulla base cioè di quanto riescono a:
1) suscitare interesse per la politica;
2) produrre informazione;
3) consentire partecipazione;
4) favorire ed accrescere il potere decisionale dei cittadini e in particolare il loro senso di efficacia.
Nel suo saggio Pasquino insiste sulla capacità della teoria classica della democrazia – un sistema che consente la competizione tra forze politiche per la conquista del governo attraverso il voto dei cittadini – di mantenere la sua forza esplicativa anche di fronte alla riconosciuta necessità di incrementare il livello di partecipazione dei cittadini.
Pier Vincenzo Uleri, nello stesso libro, sottolinea la necessità di considerare i referendum e le iniziative popolari non quali strumenti di democrazia diretta in contrapposizione alla democrazia rappresentativa, ma come «strumenti funzionali a processi di liberalizzazione politica degli assetti politico-istituzionali della democrazia, così come intesa e definita da studiosi quali Schumpeter e Sartori. Per processi di liberalizzazione politica intendo la possibilità procedurale da parte dei cittadini di esercitare controlli ripetuti, puntuali e specifici sull’operato dei governanti, tramite procedure referendarie aggiuntive, ma diverse e autonome, rispetto a quelle elettorali» (Uleri 2007, p. 48).
Uleri paventa anzi il pericolo che la retorica della partecipazione porti alla creazione di una «democrazia diretta della partecipazione guidata e mobilitata dall’alto, utile più ai governanti che non ai governati».
E ancora:
«la democrazia diretta contrapposta alla democrazia rappresentativa, più che un ideale, è, sopratutto, un feticcio. Di tale feticcio si ammantano, di volta in volta, le critiche alla democrazia rappresentativa di “destre” e di “sinistre” accomunate da una stessa matirce antiliberale. Le rivendicazioni di una imprecisata democrazia partecipata e diretta sono spesso inquadrate da componenti culturali di tipo corporativo o comunitario.
Questi avversari della democrazia liberale, anche quando agitano il feticcio della democrazia diretta si guardano comunque bene dal rivendicare in maniera esplicita e convinta gli istituti referendari. Infatti, in genere, essi sono consapevoli che il voto referendario espresso liberamente nel segreto dell'urna, è comunque una scelta individuale frutto di una cultura politico-istituzionale di origine e matrice liberale». (pp. 43-44)
Anche Stoker espone sue perplessità nei confronti delle teorie “nuove” della democrazia, in particolare di quella deliberativa. L’ideale della democrazia deliberativa, infatti, presuppone capacità cognitive, disponibilità di tempo, e una volontà di confronto e coinvolgimento troppo elevate per rappresentare un’aspettativa realistica di partecipazione.
I cittadini non vogliono partecipare come specialisti e non vogliono partecipare costantemente. «Vogliono essere coinvolti sulle questioni che sono per loro più salienti ma preferiscono fare affidamento sul giudizio dei rappresentanti e degli attivisti per la maggior parte delle questioni, per la maggior parte del tempo. La sfida del XXI secolo è disegnare un sistema politico che sappia più prontamente rispondere a queste aspirazioni». (Stoker 2007, p. 151)
Occorre rivitalizzare le istituzioni classiche e disegnarne di nuove per creare, usando le sue parole, una nuova “arena civica” che renda possibile una “politica amatoriale”, in cui ai cittadini cioè non sia richiesta una specializzazione professionale e una dedizione incompatibile con le loro altre attività per poterne prendere parte.
La studiosa del pensiero politico Chantal Mouffe (2007) condivide la preoccupazione per lo stato delle istituzioni democratiche, ma dissente con la soluzione proposta dai democratici deliberativi. Uno dei limiti dell'approccio deliberativo consiste nel fatto che, postulando la possibilità di una sfera pubblica dove le dinamiche di potere possano essere eliminate dalla realizzazione di un consenso razionale, si rivela incapace di riconoscere la dimensione di antagonismo che il pluralismo di valori implica, così come il suo carattere inestirpabile. Ciò significa non saper cogliere la natura specifica del “politico”, che invece richiede un approccio che sappia porre al centro il problema del potere e del conflitto. Il punto di partenza è dato dal fatto che le relazioni di potere sono costitutive dell'ordine sociale. Se si parte da questo assunto, allora il problema centrale dell'agire politico non è tanto quello sollevato dai teorici della democrazia deliberativa, ovvero come eliminare il conflitto e raggiungere consenso senza esclusione. Piuttosto il problema, la vera sfida di una società democratica, consiste nel come costituire forme di potere (e quindi di conflitto) più compatibili con i valori democratici.
Chantal Mouffe riprende la tesi fondamentale di uno dei padri della scienza politica e della concezione moderna della democrazia, Elmer Eric Schattschneider, il cui assunto può essere sintetizzato dalla frase: “la socializzazione del conflitto è il processo politico democratico fondamentale.” (Schattschneider 1998, p. 188) Infatti, secondo Schattschneider, «il ruolo del popolo nel sistema politico è determinato fondamentalmente dal sistema dei conflitti, poiché il conflitto coinvolge la gente in politica e la natura del conflitto determina la qualità del coinvolgimento politico». (p. 177)
Attraverso l’estensione del conflitto e il coinvolgimento degli “spettatori”, infatti, i “perdenti” possono mutare i rapporti di forza iniziali e ribaltare l’esito dello scontro. La socializzazione del conflitto rappresenta di conseguenza anche lo strumento principale a disposizione delle minoranze e delle opposizioni per promuovere il cambiamento e l’alternanza di governo. Gli strumenti della democrazia dovrebbero essere concepiti anche allo scopo di consentire a conflitti soffocati dalla classe politica di venire al centro dell’agorà politica ed essere decisi attraverso procedure diverse da quelle controllate dai partiti.
In caso contrario, secondo Chantal Mouffe, molte persone, private della possibilità di identificarsi con valide concezioni di cittadinanza, cercano altre forme di identificazione collettiva, che possono molto spesso mettere in pericolo quel legame civico che dovrebbe mantenere insieme un'associazione politica di carattere democratico. La crescita dei vari fondamentalismi religiosi, morali e etnici altro non è che la diretta conseguenza del deficit democratico che caratterizza le principali società democratiche liberali.
La risposta radicale
In una raccolta di saggi curata dallo storico Maurizio Ridolfi sul radicalismo nell’Ottocento europeo, Olivier Ihl scrive:
«Il profetismo radicale è allora divenuto un oggetto del passato, anzi, “sorpassato”? Niente affatto. (…) In un’epoca che banalizza la ragione di Stato, il suo cinismo, le sue stoltezze e i suoi doppi giochi, essi affermano l’importanza di essere radicalmente repubblicani o radicalmente democratici. La democrazia, come la repubblica, non è uno stato di fatto: è un immaginario liberatore. Ragione per cui impegnarsi in questo senso significa denunciare l’apatia civica che mina la società capitalistica. Significa mettere in guardia contro la forza di un potere economico oligarchico, fuori controllo, se non fuori tiro. Nel momento in cui, invitata a sostituire la passione per gli affari comuni con la passione per il consumo, la popolazione si occupa dei suoi affari mentre quelli della società sfuggono alla sua azione, è utile rammentarlo. La storia del radicalismo può illuminare il nostro presente». (Ihl 2005, p. 32)
Si potrebbe leggere l'attuale clima di sfiducia come un umore ciclico destinato ad essere sostituito da una nuova ondata di partecipazione e entusiasmo. Ma da cosa può arrivare questa inversione di tendenza?
Secondo Robert Dahl i cittadini potrebbero accorgersi di quanto rivelano le recenti ricerche dei cosiddetti economisti della felicità, cioè che a un incremento del reddito e del prodotto interno lordo non si accompagna un incremento della felicità e della qualità della vita. Alla cultura del consumismo, secondo Dahl, potrebbe subentrare una cultura della cittadinanza.
In Italia i radicali, con la loro cultura politica e il loro vasto repertorio di strumenti di lotta e attivazione degli istituti della democrazia, rappresentano la forza politica meglio adatta a rappresentare questa speranza di cambiamento, e soprattutto a poter individuare percorsi per creare nuove forme di partecipazione politica.
A partire dai referendum, passando per il coinvolgimento dei movimenti collettive, la creazione di forme di associazionismo innovative, l’adozione di uno statuto aperto, federale e partecipativo, e ancora l’invenzione di tecniche di lotta nonviolenta, l’insistenza sulle battaglie per la legalità delle istituzioni, le proposte di democrazia transnazionale e più recentemente l’attivazione di forme di democrazie diretta in ambito locale, i radicali devono poter mettere a disposizione delle sfide attuali della democrazia, che abbiamo provato ad elencare e argomentare, il loro patrimonio storico di esperienza e cultura.
Per questo proponiamo da subito a chi sia interessato di entrare a far parte del comitato organizzativo di un grande evento sulla riforma degli strumenti della democrazia da tenersi ai primi di ottobre. Chi sia interessato può contattarci all’indirizzo email: internet@radioradicale.it
11-VI-08, Diego Galli, notizieradicali
- Robert A Dahl, “Sull’uguaglianza politica”, Laterza, 2007
- Olivier Ihl, “Democrazia, repubblica e radicalismo: modelli (anglosassone e francese) e dibattiti”, in M. Ridolfi (a cura di), “La democrazia radicale nell’Ottocento europeo”, Feltrinelli, 2005
- Oreste Massari, “I partiti politici nelle democrazie contemporanee”, Laterza, 2004
- Chantal Mouffe, “Sul politico. Democrazia e rappresentazione dei conflitti”, Bruno Mondadori, 2007
- Gianfranco Pasquino (a cura di), “Strumenti della democrazia”, Il Mulino, 2007
- Elmer Eric Schattschneider,“Il popolo semi-sovrano. Un’interpretazione realistica della democrazia in America”, Ecig, 1998
- Gerry Stoker, “Perché la politica è importante. Come far funzionare la democrazia”, Vita e pensiero, 2008 (il libro ha vinto il premio 2006 come “libro dell’anno” assegnato dalla Political Studies Association)