Non-notizie dalla Cecenia e dal Darfour
di Valter Vecellio
Due conflitti che non si possono neppure dire “dimenticati”, perché si dimentica qualcosa di cui comunque si è avuta cognizione. Qui “semplicemente” si è deciso che non sono “notizie”, probabilmente perché non c’è nulla di “divertente”, “sexy”, non ci sono innamoramenti e innamorati da evocare, scoprire, raccontare.
La prima “non-notizia” arriva da Grozny, capitale della Cecenia: è stata trovata una fossa comune contenente i corpi di circa ottocento persone; si suppone che siano vittime della prima guerra cecena, quella voluta da Boris Eltsin nel 1994. “Dopo l’assalto di Grozny”, ha detto Nurdi Nukhazhiev, commissario per i diritti dell’uomo dell’amministrazione filo-russa in Cecenia, “le vie della città erano coperte di persone, quasi tutte civili e i cadaveri furono portati in un luogo di sepoltura di massa indicato dai militari”.
La “fossa comune” sarebbe stata rivelata da un testimone, che all’epoca faceva parte del gruppo volontario per la sepoltura delle vittime. L’esercito russo, secondo gli attivisti per i diritti civili, dovrebbe disporre delle informazioni necessarie per identificare le vittime, dare loro un’identità: in quella zona sorgeva una struttura definita “ufficio medico-legame militare”; vi si registravano i cadaveri, si eseguivano le perizie e si annotava in un diario i dati raccolti. A ogni corpo si legava una tavoletta di legno con un numero d’ordine.
Le organizzazioni per i diritti civili hanno individuato una sessantina di altre fosse comuni in Cecenia, e hanno raccolto dati per almeno cinquemila scomparsi. Della situazione in Cecenia si occupano in Russia diverse organizzazioni non governative per la difesa dei diritti dell’uomo. La più nota è “Memorial”, presieduta da Sergej Kovaljov. Un gruppo di deputati del Parlamento Europeo, guidati dall’ex dirigente di Solidarnosc Bronislav Geremek, ha proposto che a “Memorial” sia dato il Premio Nobel per la pace. “Nel corso degli ultimi venti anni”, si legge nella lettera che accompagna la proposta di candidatura, “Memorial è stata una delle Organizzazioni non governative russe più attive e indipendenti, impegnata nella lotta per la verità storica, i diritti dell’uomo e la democrazia”.
L’altra non-notizia viene riguarda il Darfour. Salih Mahmoud Osman è un signore di circa cinquant’anni (in Sudan l’anagrafe era piuttosto elastica), originario del Darfour, dove da anni, tra la generale indifferenza è in corso un sanguinosissimo conflitto che ha provocato oltre duecentomila morti e due milioni di profughi. Salih Osman ha fondato un’associazione contro la tortura, ha patito più volte lunghe detenzioni, gli è stato insignito dal Parlamento Europeo il premio Sakharov per la libertà del pensiero.
Dice Salih Osman: “Dall’esplosione del conflitto, nel 2003, quattro milioni di persone sono state costrette ad abbandonare i loro villaggi e le loro terre. Due milioni sopravvivono nei campi profughi. Queste popolazioni sono state rimpiazzate, per volontà del governo, da gruppi provenienti dal Niger, dal Mali, dalla Mauritania. Con questo sistema è stato posto un enorme ostacolo sulla via della possibile pace. I conflitti etnici in Darfour sono sempre esistiti. Fanno parte della storia dei rapporti fra tribù nomadi e sedentarie. Ma quella in corso non è una guerra tribale: è un conflitto politico. E questo per responsabilità del governo sudanese, che vorrebbe imporre una nuova identità nel Darfour sulla base di una visione integralista dell’Islam”.
Osman sostiene che Unione Europea, Stati Uniti e Canada hanno fornito molti aiuti che hanno consentito la sopravvivenza di milioni di rifugiati; e sottolinea che la comunità internazionale sia riuscito a fare in modo che venissero aperti dei procedimenti presso la Corte penale internazionale contro chi ha commesso crimini orrendi: stupri, torture, massacri. Però, aggiunge “tutto è stato fatto lentamente, con poca determinazione. E intanto aumenta la frustrazione tra le popolazioni che non vedono un futuro di pace a portata di mano. Servirebbe uno sforzo maggiore per rendere efficaci le risoluzioni dell’ONU per la protezione dei civili e andrebbe accelerato e diffuso il dispiegamento dei caschi blu, che dovrebbero operare d’intesa con il contingente dell’Unione africana, dotato di pochi mezzi. La verità è che siamo lontani da una transizione democratica. I giornali che danno fastidio vengono chiusi. TV e radio sono nelle mani del regime; i diritti umani vengono calpestati. Ma penso anche, realisticamente, che solo se costretto da pressioni interne ed esterne il governo potrà avviare un processo di rinnovamento. Anche il fatto che la Cina, principale partner commerciale del Sudan, l’anno scorso non abbia posto il veto alla risoluzione ONU per l’invio di un contingente, è un segnale molto importante. La strada è questa, anche se complicata”.
Nel governo del Sudan, racconta Osman, siedono persone incriminate dalla Corte penale internazionale per le atrocità commesse: “Contro di loro ed altri personaggi di spicco, proponiamo che siano applicate sanzioni individuali. E’ una misura appoggiata in Europa, ma non da tutti. Al governo italiano e a quello francese, che finora non appaiono determinati su questo punto, chiedo di valutare l’importante effetto che avrebbe una decisione unitaria”.
25-VI-08, notizieradicali