Manifiesto de Turín hacia unas ecometrópolis postconsumistas

UIA, Torino 2008. Dalla crisi di MegaCity e degli ecosistemi verso eco-Metropoli e l’era post-consumista. 

Il documento che segue ci è stato fatto pervenire dal professor Aldo Loris Rossi: si tratta del "Manifesto di Torino", redatto, presentato e approvato nell'ultimo congresso mondiale degli architetti che si è tenuto a Torino.
Un documento importante e, per tanti versi, sorprendente.

 “ Non possiamo risolvere i problemi se non abbandoniamo il modo di pensare che li ha creati ”(A. Einstein).

La crisi di megacity e degli ecosistemi: l’insostenibilità del paradigma meccanicista e del mito dello “sviluppo illimitato”.

Dal dopoguerra la terza rivoluzione industriale fondata sull’onnipotenza della tecnoscienza, l’energia atomica, l’automazione, l’informatica, ha ristrutturato l’intero ciclo produttivo in senso post-fordista, liberando l’umanità dal lavoro manuale.

Questa rivoluzione ha spinto impetuosamente verso la globalizzazione, la societàmassificata, l’economia consumista e lemegalopoli determinando la più grande espansione demografica, economica e urbana della storia.

Tale crescita esponenziale è resa possibile da un modello di sviluppo che considera la Natura come una riserva illimitata.

Ma la travolgente transizione dall’era tardo-industriale a quella postindustriale ha creato anche problemi ingovernabili. Essi giustificano l’invettiva di F. Ll.Wright: “la vecchia città capitalista non è più sicura.

Significa assassinio di massa” in The living city (’58), modello organico di città alternativo a quello astratto della Ville Radieuse (L.C., ‘25).

 

Il problema di dare forma alla metropoli nella mutazione genetica postindustriale era stato intuito dalla seconda avanguardia post-bellica. Questa era stata innescata, alla metà degli anni ‘50, da due progetti provocatori, complementari, che ponevano il problema “della grande dimensione”: The Illinois, città verticale alta un miglio (’56) e la revisione, venti anni dopo, di Broadacre city, città-regione orizzontale (’36-’58) di F. Ll.Wright.

Essi annunciavano le nuove ricerche megastrutturali per un habitat futuribile che simulavano la complessità delle metropoli; mentre l’avanguardia artistica scopriva il fascino di queste ultime nell’esposizione This is Tomorrow (R. Hamilton, ’56).

La nuova visione spaziale e artistica liquidava nello stesso tempo: l’angoscia paralizzante dell’informale, gli stereotipi del realismo socialista, l’accademia tardo-razionalista, il ritorno all’ordine neo-storicista.

Inoltre essa, a differenza dello statuto funzionalista, avvertiva la crisi ambientale incombente proponendo per la prima volta una sintesi di architettura e ecologia (arcology), che anticipava la rivolta ecologista consolidatasi dalla fine degli anni ‘60 in poi.

Questa emergeva con la fondazione del Club di Roma (‘68), la denuncia di The population bomb (P. Erlich, ’68), la proclamazione della “Prima giornata della Terra” (22 aprile ’70), la nuova prospettiva bio-economica (N. Georgescu-Roegen, ‘71), il Rapporto delMIT su “I limiti dello sviluppo” (D. Meadows, ’72), la Prima Conferenza Mondiale sull’Ambiente (Stoccolma, ‘72), che introdusse il concetto di “sostenibilità”; la scoperta dell’”effetto serra” (F. Schneider, ’75) e la Carta del Machu Picchu (’77). Quest’ultima teorizzava la città post-funzionalista, antimeccanicista, aperta, mutevole, polifunzionale servita, anzitutto, dal trasporto pubblico.

 

Per affrontare la più grande espansione demografica, urbana ed economica della storia si profilavano quattro idee prevalenti di città.

Alcuni rilanciavano il modello della città della Storia ma, i più, quello della città Razionale; mentre la visione organica proponeva il modello della living city in equilibrio con la Natura e la neoavanguardia prefigurava le metropoli del Futuro.

Il modello neostoricista, anti-industriale e anti-modernista, a sviluppo orizzontale, si rifugiava nel passato che non aveva mai conosciuto gli smisurati problemi delle odierne megalopoli.

Quello razionalista, industriale e modernista – sebbene negli anni ‘20 avesse proposto i progetti avveneristici di metropoli a sviluppo verticale come la “Ville contemporaine pour troi milions ’habitants” (’22)  e il Plan Voisin  (’25)  di Le Corbusier o la Groszstadt Architektur  (’27)  di L. Hilberseimer indifferenti alla Storia e alla Natura - ora ripiegava, in nome del realismo, sulle tipologie dei quartieri degli stessi anni, che si dissolvevano nelle immense periferie invertebrate.

Ma neo-storicisti e neo-razionalisti non si accorgevano che “l’assenza di una teoria della grande dimensione è la più esasperante debolezza dell’architettura” (R. Koolhaas).

Di fatto, non si potevano risolvere i problemi drammatici delle megalopoli, organismi di scala e complessità superiore, riducendoli a quelli dei quartieri razionalisti e della città tradizionale, organismi semplici e limitati, perchè: “ad ogni livello di complessità, i fenomeni osservati mostrano proprietà che non esistono a livello inferiore” (F. Capra, ‘96).

Ormai una mutazione genetica del DNA separava quartieri e città dai superorganismi metropolitani a sviluppo verticale. Del resto, mentre emergeva la rivolta ecologista contro il paradigma meccanicista, la globalizzazione del modello di sviluppo occidentale accelerava la sua potenza produttiva, iperconsumista e megalopolitana sfuggendo ad ogni controllo.

Intanto l’omologazione delle coscienze incalzava imponendo la dittatura del kitch, del banale, della comunicazione tautologica.

Nella società del delirio consumistico in cui il virtuale tende a spodestare il reale: “ci sovrasta il pericolo di una condizione che potremmo definire ‘la miseria psicologica della massa’” (S. Freud, ‘29).

 

Oggi l’inaudito sviluppo post-industriale è giunto al punto da sconvolgere i cicli bioclimatici e l’ecosistema planetario. Questo ha rivelato l’insostenibilità del paradigma meccanicista su cui è fondato lo statuto funzionalista codificato dalla Carta di Atene (‘33).

 

Tale insostenibilità si manifesta attraverso patologie sempre più allarmanti che non possono essere più rimosse, minimizzate o ignorate dalle istituzioni, riassumibili nei seguenti fenomeni:

 

1. L’esplosione della bomba demografica.

La popolazione mondiale ha impiegato circa 2 milioni di anni per giungere al primo miliardo nel 1830 e solo 100 anni per il secondo; quindi dal 1930 si è innescata un’accelerazione esponenziale per cui ne sono occorsi 30 per il terzo miliardo, 15 per il quarto, 13 per quinto e 11 per il sesto, nel 1999.

Gli studi di demografia storica stimano che: dodicimila anni fà, all’inzio dell’era agricola, la popolazione mondiale giungeva a 10 milioni; duemila anni fà, all’avvento dell’era cristiana, a circa 250 milioni; alla fine del XVIII secolo col decollo della prima rivoluzione industriale si toccava il miliardo di abitanti. Infine, con l’accelerazione post-industriale, tra il 1950 e il 2000, è cresciuta da 2,5 a 6,1 miliardi.

Intanto ogni giorno aumenta di circa 200 mila abitanti e, nel 2050, se non interverranno correttivi, si prevede il raddoppio dell’attuale popolazione. Ma già nel 1974 L.R. Brown ammoniva: “quello che ora dobbiamo riconoscere è che l’aumento continuo della popolazione, anche a un ritmo moderato d’ora in avanti aggraverà sempre più in pratica tutti i principali problemi economici, ecologici, sociali e politici, a cui l’umanità si trova di fronte”.

Allo stato attuale l’esplosione demografica è incontrollabile!

 

2. L’espansione permanente delle megacities e delle galassie megalopolitane.

Alla crescita esponenziale demografica corrisponde quella urbana.

Tale sinergia ha causato tra il 1950 e il 2000 un incremento della popolazione delle città dal 25,4 % (732 milioni) al 50,0% (2.845 milioni), che nel 2008 supera per la prima volta nella storia quella rurale.

In particolare, nel 1950 New York, la più grande metropoli del mondo aveva 12,3 milioni di abitanti, ma nel 1975 era superata da Tokio (19,8 ml).

Nel 2001 questa ha confermato il primato (26,5), seguita da San Paolo e Mexico city (entrambe con 18,3 ml); mentre NewYork è scesa al quarto posto (16,8).

Le proiezioni al 2015 indicano ancora Tokio (27,3) come la più popolosa seguita da cinque metropoli del terzo mondo (Dacca, Bombay, San Paolo, Delhi, Mexico City); mentre N.Y., pur crescendo di 5,6 ml rispetto al 1950, scenderà al settimo posto (17,9).

Intanto le metropoli in espansione tendono a formare sistema con quelle prossime configurando megalopoli definite tali se superiori a 30 milioni di abitanti; grandi quanto l’Europa all’epoca di Augusto.

Nel ‘61 il loro primo studioso J. Gottmann ne individuava una diecina: tre in Europa (il sistema Londra- Liverpool, l’asse Reno-Rodano, quello padano prolungato nei corridoi tirrenico e adriatico); tre in nord America (NewYork- Boston, Chicago-Toronto, Los Angeles-San Francisco; una in sud America (San Paolo-Rio de Janeiro); e tre più estese in Asia (Shanghai-Pechino, Calcutta-Delhi e Tokio-Osaka).

Oggi nessuno sa a quali dimensioni giungeranno le metropoli e le galassie megalopolitane in espansione.

 

3. L’onnipotente sviluppo post-industriale, la globalizzazione mercatista e il controllo planetario delle risorse.

Dal 1820 il prodotto economico globale è aumetato di 58 volte e nel solo XX sec. di 18. “Dalla metà di questo secolo ... è pressoché quintuplicato; in media lo sviluppo economico di ciascuno degli ultimi quattro decenni ha superato quello registrato dall’inizio della civiltà al 1950” (L.R. Brown, ’90).

Intanto dal 1975 al 2000 la produzione mondiale è passata per: l’energia elettrica, da 1.606 milioni di kw a 3.340; il ferro, da 468 milioni di tonn. a 580 ml; l’acciaio, da 651 a 722; l’alluminio, da 12 ml a 23 ml di tonn. L’onnipopotenza di tale sviluppo è prodotta dalla sinergia tra l’innovazione permanente della tecnoscienza, la globalizzazione mercatista e la pervasività mondiale della finanza, senza frontiera, anonima e on-line.

Essa è giunta: ad un supersfruttamento biotech della terra al punto da distruggere un terzo dei prodotti annuali; e a una sterminata produzione di merci che invade ogni angolo del globo.

Questo implica un controllo planetario sempre più conflittuale delle materie prime e dei mercati. Intanto: “la crescita del sistema economico così come è strutturato oggi non porrà fine alla povertà. Al contrario le forme attuali di crescita perpetuano la povertà e ampliano il divario tra ricchi e poveri” (D. Meadows, 2004). Secondo ilWHO (World Health Organization): “nel mondo circa 20 milioni di persone l’anno muiono di fame e di malattie collegate, mentre il 18% della popolazione è obesa”.

 

4. La mutazione genetica post-fordista della produzione, della società, della metropoli.

La rivoluzione post-fordista è fondata sulla consapevolezza che: “il ganglio della società post-industriale è la conoscenza”. Pertanto “l’economia ha  smesso di occuparsi primariamente della produzione di beni per occuparsi di servizi, della ricerca, dell’educazione e dei divertimenti” (D. Bell, ’63).

Questa rivoluzione ha provocato una mutazione genetica della società: da un lato, con “la fine del lavoro” manuale e del ceto medio dell’era industriale; dall’altro con “l’ascesa della network society” (M. Castells, ‘96), della “creative class” (R. Florida, 2001) e dei “colletti bianchi”, strutture portanti della società post-industriale della innovazione permanente.

Negli USA, mentre gli addetti all’agricoltura e all’industria sono scesi al 2% e al 21%, quelli dei servizi sono saliti al 77%. Tale diversità tende a formare una mass class sempre più omologata, sebbene a reddito molto differenziato. La conseguenza territoriale di tale rivoluzione è: “il divorzio tra la città e la produzione industriale” (J. Gottmann, ‘91) che ha fatto esplodere le metropoli in “nebulose” a crescita incontrollata.

Questo produce forme diverse di sistemi urbani classificati come: “global city” (S. Sassen, ‘91), “città in transizione industriale positiva o negativa”, “aree urbane in crisi strutturale”, “città industriali tradizionali”, ecc..

Oggi questi giganteschi problemi sono affrontati in modo episodico o sotto la spinta dell’emergenza, anche perchè mancano strategie adeguate alla loro complessità .

 

5. La globalizzazione di infrastrutture, mercati e sistemi urbani in un'unica weltstadt “infinita e senza forma”.

L’invincibile apparato tecno-scientifico e finanziario si proietta a scala planetaria attraverso un’illimitata rete infrastrutturale soft (internet), cresciuta dal 1995 del 50% all’anno, e hard (sistemi intermodali dei trasporti), con un

incremento mondiale delle auto, tra il 1950 e il 1999, da 70 milioni (50 solo in USA) a 682 milioni; cioè di circa 10 volte. Per misurare la potenza della rete infrastrutturale che avvolge il pianeta, basti osservare: che “tra il 1950 e il 1996 le esportazioni mondiali di merci sono aumentate di 17 volte, da 311 miliardi di dollari a 5.400 miliardi”; che “nel trasporto aereo tra il 1950 e il 1998 il numero di passeggeri/km sulle rotte internazionali è cresciuto quasi 100 volte da 28 milioni a 2.600 ”; che “ogni giorno circa 2 milioni di persone attraversano un confine internazionale,

mentre nel 1950 erano appena 69 mila”; che “il numero di linee telefoniche in tale periodo è cresciuto di otto volte, da 89 a 836 milioni”(H. French, 2000). Questa rete planetaria in espansione inarrestabile sfugge, ovviamente, ad ogni legge che non sia quella del massimo profitto.

Mentre essa alimenta i mercati mondiali in crescente concorrenzialità, integra le galassie megalopolitane, le metropoli monocentriche, le città storiche in equilibrio ambientale, quelle obese e le stesse bindonvilles che assediano le metropoli marginali, in un'unica weltstadt “infinita e senza forma”.

 

6. L’”Impronta ecologica” della città planetaria oltre i limiti della Natura.

L’impatto della città planetaria sulla ecosfera è incontenibile e sempre più imponente: “le città di oggi occupano il 2% della superficie terreste, ma consumano il 75% delle sue risorse” (M. O’Meara,‘99).

L’ipersfruttamento della Natura e la crescente produzione di rifiuti stanno consumando gli ecosistemi più rapidamente di quanto essi possono autorigenerarsi.

Questo è causato dalla competizione espansionistica mondiale dei paesi più industrializzati e più indifferenti agli equilibri naturali. La dilagante ”Impronta ecologica” (W. E. Rees,M.Wackernagel, ’96) è evidente dalla deforestazione: in 50 anni è stato distrutto un quinto delle foreste tropicali, mentre “si prevede che entro il 2050 la quota procapite di superficie boschiva passerà dagli attuali 0,56 ettari a 0,38”; dal depauperamento delle risorse idriche: “i deficit più gravi si verificano in Cina e soprattutto in India dove la popolazione è aumentata di tre volte rispetto al 1950” (L.R. Brown, 2000); dal collasso degli stock ittici: “le risorse del mare sono allo stremo; i paesi industrializzati dominano i consumi globali di pesce aggiudicandosi l’80%delle importazioni totali in valori” (H. French, 2000).

Nella seconda metà del XX sec. la domanda mondiale di acqua è triplicata e “attualmente l’agricoltura ne consuma circa il 70%, l’industria il 22%, le aree urbane l’8%” (S. Postel, 2004); mentre fiumi e laghi sono impoveriti e l’accesso alle falde idriche è sempre più difficile.

Intanto, la crescita urbana in Europa nel decennio 1990-2000 ha distrutto 2.445.000 ettari di superfice agricola, un bene unico e irriproducibile.

In generale, gli studi sull’”Impronta Ecologica” dimostrano che i paesi avanzati vivono al di sopra dei loro mezzi ecologici per cui occorrono almeno tre pianeti solo per essi.

 

7. La distruzione progressiva del Patrimonio Storico e delle comunità tardo-antiche.

Nelle grandi metropoli in espansione - attraverso l’urbanizzazione di immense aree agricole che dilatano all’infinito le periferie e lo sprawl - i centri storici sono soffocati fino ad essere distrutti per riproporzionare i centri urbani alle nuove dimensioni, con la conseguente disarticolazione delle loro comunità.

Nelle metropoli come il Cairo, Shanghai, Pechino, Calcutta, San Paolo, Rio de Janeiro tale distruzione, causata dall’alto valore fondiario delle aree, è innescata soprattutto dall’attraversamento di grandi fasci infrastrutturali a dislivello che travolgono il tessuto storico considerato come un semplice ostacolo al progresso e non la più tangibile memoria dell’uomo.

Questo processo incalza nonostante le raccomandazioni dai poli opposti: della Carta diAtene: “i valori architettonici devono essere salvati sia che si tratti di edifici isolati che di interi nuclei urbani. Essi dovranno essere tutelati quando siano l’espressione di una cultura precedente o rispondano ad un interesse generale”; e della Carta del Machu Picchu: “è indispensabile che l’azione preservatrice di restauro e riciclaggio di ambienti storici e monumenti architettonici sia integrato nel processo vitale dello sviluppo urbano”.

Queste raccomandazioni, confermate dalle numerose carte del restauro e dell’urbanistica, sono puntualmente disattese.

 

8.  Il consumismo come acceleratore esponenziale della produzione: la sua metamorfosi da vizio a virtù.

Nella sconfinata capacità produttiva del modello di sviluppo occidentale opera un acceleratore esponenziale: il consumismo.

“La metamorfosi del consumo, da vizio a virtù, è uno dei fenomeni più importanti – eppure uno dei meno studiati – del XX secolo” (J. Rifkin,’95).

Esso fu evocato, per la prima volta in USAnegli anni ’20: “davanti allo spettro di una produzione eccessiva e di una domanda insufficiente, le imprese americane iniziarono a far leva sulla risorsa della pubblicità per scuotere il pubblico”.

Nella cultura della frugalità gli oggetti dovevano durare a lungo, funzionare bene, rappresentare valori simbolici e estetici consolidati per essere conservati e tramandati.

Viceversa, col “nuovo vangelo del consumo”, gli oggetti debbono mutare con la moda, durare poco, funzionare meno, essere accattivanti ma “anestetici” e “asemantici” per finire senza rimpianti in discariche sempre più grandi; con uno spreco delittuoso di materie prime e energie.

Ammonisce G. Anders: “l’umanità che tratta il mondo come un mondo da buttare via, tratta se stessa come un’umanità da buttare via” (‘80).

In due secoli, il “cittadino” libero della rivoluzione francese è stato ridotto ad un “consumatore” eterodiretto!

 

9. L’apogeo e il tramonto dell’era dei combustibili fossili: il conflitto per il dominio mondiale delle energie.

Apartire dal 1700, in Inghilterra l’energia non rinnovabile del carboncoke ha sostituito quella rinnovabile del legno, annunciando l’era della macchina a vapore e della rivoluzione industriale.

Oggi i combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturali) forniscono il 90% dell’energia dei paesi industrializzati e il 75% dell’energia mondiale consolidando uno stile di vita indifferente allo spreco energetico.

L’escalation dei consumi è incontenibile: se nel 1950 si bruciavano 463 milioni di tonn. di petrolio, nel 1998 si è giunti a 3,4 miliardi; mentre tra il 1975 e il 2000 il consumo è passato da 20.512 milioni di barili annui a 27.635; quello del gas da 44,4 trilioni di piedi cubici all’anno a 94,5; quello del carbone da 3.300 ml di tonn. annui a 5.100.

Nel 2000 i maggiori consumatori mondiali di petrolio risultavano: gli USA con 2.325 mil. di tonn.; la Cina 1.609; la Russia 641; mentre l’Italia ne bruciava 184 mil. tonn.

Un solo grattacielo di Chicago, il Sears Building, consuma elettricità pari ad una città di 150 mila abitanti, mentre “in termini di consumi energetici, i 295 milioni di americani richiedono un apporto energetico equivalente a quello di 22 miliardi di esseri umani!” (J. Rifkin, ‘80).

Ma l’era dei combustibili fossili è al tramonto. L’International EnergyAgency prevede il peak della produzione mondiale di petrolio a metà del 2020-‘30, a cui seguirà un declino secondo una curva a campana; intanto è in atto una impennata dei prezzi oggi inarrestabile.

Nessuno sa quale sarà il futuro energetico della città planetaria, ma tutti prevedono una crescente conflittualità per il dominio mondiale di tale risorsa.

 

10. La crescita vertiginosa di rifiuti, inquinamento e effetto serra: l’ecocidio planetario.

L’esplosione incontenibile della popolazione e della weltstadt, la pervasività del modello di sviluppo consumista, lo spreco scandaloso di risorse ambientali ed energetiche, si traducono fatalmente in un incontrollabile inquinamento globale e cambiamento climatico.

In merito a quest’ultimo la previsione al 2100 per l’Europa indica un aumento da 2° a 6° rispetto al 1980.

Intanto la Convezione-quadro delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico (‘92) fissava l’obiettivo della riduzione entro il 2000 di anidridre carbonica ai livelli del 1990; mentre il protocollo di Kyoto (‘97) imponeva una riduzione del 6-8 % entro il 2008-2012. Ma i risultati sono stati marginali.

Di fatto: “quanto più un’economia produce, tanto più inquina” (J. E. Stiglitz, 2006). Ogni 24 ore immettiamo nell’atmosfera circa 70 ml di tonn. di CO2. Se nel 1950 se ne scaricavano 1,6 miliardi di tonn. di carbonio, nel 1998 tale micidiale quantità è salita a 6,4 miliardi.

Mentre la produzione di rifiuti urbani cresce in proporzione all’economia consumista, si recupera solo una minima parte delle materie prime utilizzate. In Europa su 340 milioni di tonn./anno di rifiuti il 14% è riciclato, il 10 % è trasformato in compost, il 54% finisce in discarica e il 22% in inceneritori. Intanto le aree megalopolitane sempre più massificate, congestionate e avvelenate, formano isole di calore invivibili che diventano praticabili al costo di smisurate reti impiantistiche e un consumo crescente di combustibili fossili che, a sua volta, incrementa l’inquinamento in un circuito perverso.

Le metropoli sono la prima causa dell’”effetto serra” responsabile dell’impatto devastante su geosfera, atmosfera, idrosfera e biosfera, causando: mutazioni climatiche, estremizzazioni metereologiche, buchi nell’ozono, piogge acide, deforestazioni, desertificazioni, penuria di acqua dolce, scioglimento dei ghiacciai, estinzioni di specie viventi, ecc..

 

11. L’autoreferenzialità dell’architettura nella società consumisticospettacolare.

Lo straordinario sviluppo economico prodotto dalla rivoluzione industriale negli ultimi 250 anni ha inciso profondamente sul modo di concepire l’architettura.

Questa si è polarizzata sempre più intorno alle quattro tendenze suddette configurando coppie antinomiche orientate: verso il Passato o il Futuro e verso la Ragione o la Natura, che assumono responsabilità diverse rispetto alla crisi ambientale in atto.

In sintesi: le poetiche neostoriciste, chiuse nell’autonomia disciplinare, esorcizzano tale crisi rievocando un passato evidentemente immune da essa; all’opposto, quelle proiettate verso il Futuro, aperte ad una visione interdisciplinare, l’affrontano anche al limite dell’utopia; intanto le correnti razionaliste espressione dello statuto funzionalista continuano ad ignorare la sua insostenibilità; mentre solo quelle di ascendenza organica si orientano verso un’architettura che nasce e vive in equilibrio con la Natura.

Dunque nella società consumistico-spettacolare la maggioranza di tali tendenze ritiene l’architettura un linguaggio prevalentemente autoreferenziale, cioè indifferente alla crisi ambientale incombente.

 

Queste patologie sono giunte a un livello di pericolosità tale da minacciare la sopravvivenza del pianeta! Ormai le “cose” si ribellano alle “parole”, i problemi sfuggono alle tesi elaborate per governarli.

Intanto la sinergia tra tecnocrazia, economicismo e mercatismo ha continuato a ignorare l’ecocidio planetario in atto svelato e denunciato, dagli anni ‘70 in poi, dalla nuova visione sistemica del mondo.

Essa ha evidenziato che il pianeta, in quanto ecosistema “vivente” in equilibrio autoregolato, non può più essere governato da tali principi e dalla politica del laisser-faire laisser-passer sempre più indifferenti alla gravità della crisi ambientale, energetica e metropolitana, pervenuta ad un punto di rottura.

Oggi l’UIA, nel 60° anno dalla fondazione - in continuità con la Carta di Machu Picchu (’77) “revisione antilluministica della Carta diAtene” (B. Zevi) e con le Dichiarazioni del Messico (’78),Varsavia (’81), Chicago (‘93) - assume le sue responsabilità di fronte a tali sfide, contribuendo a elaborare strategie alternative, ad ampliare le competenze interdisciplinari, a formare su tali tesi gli architetti del futuro.

Questo, nella consapevolezza che: “non è perché le cose sono difficili che noi non osiamo, è perché non osiamo che sono difficili” (L. A. Seneca).

“Non bisogna far violenza alla Natura, bisogna persuaderla” (Epicuro)

 

Verso ecometropolis e l’era post-consumista: la riscoperta del paradigma ecologico e della realtà dei “limiti dello sviluppo”.

I 250 anni della rivoluzione industriale sono stati dominati per i quattro quinti dal paradigma meccanicista (analitico-riduttivo) e dal mito dello “sviluppo illimitato” che hanno prodotto insieme all’affluent society, le patologie oggi incontrollabili.

Ma nell’ultima fase post-industriale, si è aperta una nuova prospettiva, sebbene anticipata da profetiche intuizioni: il paradigma ecologico (sintetico-organico) consapevole, viceversa, della realtà dei “limiti dello sviluppo” e orientato verso un’era post-consumista, una nuova frontiera eco-metropolitana e un’architettura che viva in simbiosi con la Natura!

Questo mutamento è in sintonia con le scienze che dal dopoguerra vanno oltre il paradigma meccanicista: la Cibernetica, la Teoria dei sistemi, della Gestalt, l’Ecologia, i Sistemi dinamici complessi, la Biologia olistica, la Scienza del Caos. Esso segna la transizione paradigmatica dal “diritto alla città” (H. Lefebvre, ‘68) al “diritto alla Natura”.

 

Ovviamente tale transizione è tutt’altro che semplice da realizzare.

Questo perchè il paradigma meccanicista si è consolidato in oltre due secoli di rivoluzione industriale, dopo una lunga gestazione in seno alla cultura occidentale, divenendo il “modo di pensare” indiscusso sotteso a tutte le culture.

Scrive J. Rifkin: “già dalla metà del XVII secolo tutti gli elementi chiave del paradigma meccanicista erano stati accuratamente connessi in uno schema unitario” (’80).

Bacone, Cartesio e Newton, con la riduzione del mondo a “quantità” misurabili e della “qualità” a illusione, avevano annunciato l’universo della precisione e delle macchine.

Nell’architettura moderna, scaturita dalla rivoluzione industriale, tale visione riduzionistica si esprime nelle poetiche della stilizzazione riduttiva e geometrizzante; anzitutto, nell’”architettura degli ingegneri” ottocentesca, quindi nel funzionalismo, razionalismo, costruttivismo, codificati nella Carta di Atene (’33); infine nell’odierna high tech.

Queste poetiche – basate sull’impulso all’astrazione tendente all’ordine analitico, geometrico, meccanico, seriale, schizomorfo – operano come teoria della distruzione permanente del Significato, negazione della Storia e della Natura. Pertanto, si calano perfettamente nel processo industriale taylorista.

Contro tale strapotere sono insorti: da un lato, i difensori della Storia che, sconvolti dall’asemanticità dello statuto funzionalista, rievocano forme del passato adattandole ai problemi odierni; dall’altro, i difensori della Natura, che rifiutano il ritorno alla Storia, ma anche il riduzionismo cartesiano.

 

Questi ultimi sono consapevoli che: “non bisogna far violenza alla Natura, ma persuaderla” (Epicuro); che “le cose fuori dal loro stato naturale, né vi si adeguano, né vi durano” (Giovanbattista Vico); che “nella Natura tutto è legato; uno stato tende ad un altro e lo prepara” (J. G. Herder); che esiste un “ordine mobile” nella Natura vista come “un Grande Tutto armonioso” (W. Goethe).

Nell’architettura questa visione olistica si esprime nell’altro polo della modernità: nelle poetiche della continuità plastico-spaziale; cioè, nell’espressionismo, organicismo, futurismo, informale, de-costruttivismo.

Queste - basate sull’impulso all’empatia tendente a un dinamismo sintetico, antigeometrico, antimeccanico, antiseriale, morfogenetico - si propongono come trasfigurazione ideale delle energie che animano la Natura, ricerca di nuovi significati e simboli. Dunque, come superamento dell’asemanticità meccanicista, ma anche dell’ecclettismo storicismo.

 

Per Wright l’architettura organica “significa né più né meno, una società organica” incarnazione della democrazia e, in quanto tale “rifiuterà le imposizioni alla vita che sono in disaccordo con la Natura e il carattere dell’uomo”, testimoniando così l’”indipendenza dal classicismo nuovo e vecchio … da ogni estetismo accademico” (’39) e la convinzione che “l’essenza di una casa non consiste nelle quattro pareti, ma nello spazio in cui si vive” (Lao Tze).

Nella “grande dimensione” l’anti-riduzionismo oppone alla città della Storia e alla “ville-radieuse” della Ragione, la “living city” integrata nella Natura e proiettata verso il Futuro.

Questo in analogia alla concezione orientale, che considera: “il cosmo come... un’unica realtà indivisibile, in eterno movimento, animata, organica: materiale e spirituale nello stesso tempo” (F. Capra, ‘75).

In tale prospettiva si apre una possibilità inedita per affrontare la crisi ambientale in atto: una sintetisi organica del vitalismo delle metropoli e del rispetto inderogabile dell’ecologia.

Questo a condizione di neutralizzare due miti consolidati: da un lato, quello “conservatore” del ritorno a un passato refrattario alla modernità, ma ritenuto depositario di valori simbolici; dall’altro, quello “progressista” della potenza tecnocratica modernista, sebbene indifferente alla Storia e alla Natura.

Dunque, una sintesi non facile da realizzare che impone una pregiudiziale: “non scambiare come ‘valori della modernità’ quelli che invece sono solo i suoi disastrosi inconvenienti” (U. Galimberti, 2003).

 

Il paradigma ecologico, a rete, scoprendo le leggi che regolano il divenire dei fenomeni fisici e la crescita degli organismi viventi, si incarna nella visione olistica che consente la “pacificazione tra tecnosfera e ecosfera” (B. Commoner) indispensabile per la sopravvivenza del pianeta.

Pertanto, se si vuole liberare la modernità dai “suoi disastrosi inconvenienti” provocati dallo statuto meccanicista ormai insostenibile, occorre con urgenza una strategia alternativa capace di perseguire:

 

1.1.Il disinnesco della bomba demografica.

Tale politica, annunciata già dal 1969 all’ONU e riconfermata dal ’74 nelle decennali conferenze mondiali sulla popolazione, è perseguibile contrastando la “biopatologia della civiltà di massa” sia nei paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo.

I primi già tendono a stabilizzarsi in ragione dell’elevato livello economico, mentre nei secondi l’incontenibile crescita demografica è ancora dettata dall’alto rischio di mortalità per carestie, epidemie, catastrofi naturali, povertà endemica, guerre, etc..

Ma è noto che nei paesi in via di sviluppo, soprattutto elevando il loro tenore di vita, si ottiene un naturale controllo demografico.

A tal fine occorre: - non sottrarre ad essi le risorse naturali che vanno utilizzate anzitutto in sito perchè di importanza strategica per la loro evoluzione economica e sociale; - azzerare il loro enorme debito pubblico; - far decollare un vasto programma di “microfinanza” sul modello proposto dal Premio Nobel Muhammad Yunus, già sperimentato.

Queste scelte formano la precondizione per l’emancipazione di tali popoli dal dominio esterno, per “affermare il diritto di controllare il proprio destino” (N. Mandela).

 

1.2 Un habitat entropico: da garden-city, living city, arcology, verso la nuova frontiera eco-metropolitana

L’esplosiva crescita demografica e urbana, sinergica alla rivoluzione industriale, ha stimolato studiosi e architetti a dare forme nuove alle città, organismi “viventi” sui generis perchè crescono in modo illimitato.

Questo, a differenza degli organismi animali programmati dalla Natura che, nell’attuale era bioclimatica, non possono superare la dimensione delle balene.

Più di un secolo fa E. Howard, per correggere le patologie dei due tipi di habitat prodotti dalla rivoluzione proto-industriale, la groszstadt e coketown, propose il modello della garden-city (1898-1902).

In essa: “tutti i vantaggi della vita cittadina … e tutte le gioie e le bellezze della campagna si trovavano in perfetta combinazione”.

Questa sintesi di natura e città eccelleva nella “living city” di Wright ed era stata rilanciata dall’arcology di Soleri.

Oggi, nell’era i cui la città ha mutato il DNA divendo metropoli e il giardino ha assunto la grande scala dell’ecologia, occorre immaginare eco-metropolis, un habitat “a rete”, coerente con l’era entropica, quale potente accumulatore elaboratore-scambiatore di cultura immateriale e materiale, ma non imploso bensì in equilibrio dinamico con la Natura.

Ma la “grande dimensione” e complessità dei problemi eco-metropolitani esige piani-progetti strategici capaci di integrare le scale architettonica, urbana, paesaggistica, ambientale, geotettonica, idrografica, ecc., spesso frantumate in competenze settoriali incomunicabili.

Pertanto appare sempre più evidente il ritardo delle istituzioni nell’affrontare i problemi della “grande dimensione” eco-metropolitana.

 

1.3. La rifondazione del modello di sviluppo come sintesi di economia e ecologia.

“La scienza economica corrente ... ha completamente ignorato la speciale funzione delle risorse naturali esauribili, nella modalità di comportamenti degli esseri umani “ (N. Georgescu- Roegen, ‘80).

Di fatto “economicismo”, “mercatismo” e PIL, espressioni del paradigma meccanicista e della dittatura tecnocratica, non dicono nulla della qualità della vita e sono indifferenti alla crisi ambientale che minaccia il pianeta.

Questa è direttamente proporzionale alla crescita esponenziale della globalizzazione che negli ultimi venti anni è dilagata: dopo la caduta del muro di Berlino (‘89) nel blocco sovietico; con l’accordo WTO sul mercato unico (Marrakech, ‘94) nel resto del mondo, escluso la Cina; infine in quest’ultima, dopo il suo ingresso nel WTO (2001).

Per scongiurare il collasso planetario occorre una svolta radicale: un rimodellamento dell’economia convenzionale che neutralizzi le distorsioni della globalizzazione mercatista rispondendo alle esigenze odierne dell’uomo, ma salvaguardando anche quelle delle generazioni future.

Dunque, un nuovo ordine economico-ecologico, cioè bio-economico, che non comprometta i cicli vitali del pianeta.

Questo nella consapevolezza, come scrive il premio Nobel per l’Economia Amartya Sen, che oggi “le diverse parti del mondo sono legate l’una all’altra più strettamente di quanto lo fossero mai state” (‘99).

 

1.4. Il riequilibrio eco-metropolitano dell’armatura urbana disimpegnata dai grandi corridoi transnazionali.

L’incontenibile crescita demografica, urbana e economica post-bellica, ha fatto esplodere le metropoli sul territorio, imponendo ai paesi che aspirano al ruolo di leader una ristrutturazione radicale dell’armatura urbana.

Essa può essere governata attraverso tre politiche complementari.

Anzitutto, delocalizzare dalle città congestionate le grandi attività secondarie in distretti industriali situati sui nodi infrastrutturali primari o addirittura in altri paesi; quelle terziarie in “superluoghi” extraurbani destinati a macroservizi, attrezzature, grande distribuzione, piattaforme logistiche, interporti; nonchè creare eco-towns quali unità urbane ad autosufficienza produttiva, funzionale, energetica, a sviluppo controllato.

Inoltre, riconvertire le aree urbane dismesse e i centri storici ad attività quaternarie quali: centres de décision, conception, services rares e loisir, grandi parchi urbani, favorendo la civiltà della produzione della conoscenza; e rinaturalizzando le aree de-cementificate.

Infine, potenziare le infrastrutture intercity per formare costellazioni policentriche a funzioni complementari; cioè: “strutture a mosaico” (J. Gottmann) eco-metropolitane.

In tali reti occorrerà individuare quelle direttrici capaci di assumere il ruolo di “assi di riequilibrio economico-territoriali”, quali attrattori di funzioni di livello superiore, agganciati ai grandi corridoi transnazionali.

 

1.5. L’integrazione delle reti hard e soft in un cyberspace aperto, interattivo ma in simbiosi con la biosfera.

L’era post-industriale spinge incessantemente: da un lato, verso specializzazioni sempre più diversificate; dall’altro, verso una reintegrazione interdisciplinare sempre più inclusiva.

Questo doppio movimento determina una moltiplicazione continua delle reti per lo scambio e la distribuzione dei flussi di informazioni, merci e persone, garantendo una connessione sempre più estesa e articolata della città planetaria.

Oggi la potenza del sistema integrato delle reti hard e soft, scheletro portante della weltstadt, è tale da formare megalopoli anche trans-oceaniche, come nel caso di Ny.Lon, cioè New York-Londra che, sebbene distanti circa seimila km, sono legate da pendolarità.

Questo processo di globalizzazione è irreversibile e tende a creare un cyberspace aperto, sempre più dinamico, complesso, interattivo che, tuttavia, fatalmente sfugge ad ogni controllo.

Pertanto la sua pervasività deve essere governata attraverso strategie a scala geografica-subcontinentale, elaborate e condivise dalle comunità nazionali e internazionali.

Ma, soprattutto, tale cyberspace deve identificarsi con la strategia di riequilibrio della weltstadt da rimodulare sulle leggi della biosfera.

 

1.6. Una “Nuova alleanza” con la Natura: oltre il riduzionismo dello statuto funzionalista.

“Secondo il Living Planet Index, predisposto dalWWF per misurare il livello di salute della Natura, questo dal 1970 al 2000 è calato del 35%” (G. Gardner, 2004), mentre il PIL mondiale lordo è salito dall’1,0 al 2,6.

Questo paradosso spiega l’incomunicabilità tra scienze ambientali e economia convenzionale. Quaranta anni fà R. Kennedy denunciò: “il PIL misura tutto ad eccezione di quello che rende la vita degna di essere vissuta” (‘68).

Dunque, è urgente una “Nuova alleanza” (I. Prigogine, ‘79) con la Natura al fine di arginare la dilapidazione delle risorse non rinnovabili e le patologie che minacciano il pianeta.

In tale contesto occorrerà coniugare: “i processi ciclici, conservatori e perfettamente coerenti dell’ecosfera, e quelli lineari innovativi, ma ecologicamente disarmonici, della tecnosfera” (B. Commoner, ’75).

Solo realizzando questa convergenza sarà possibile contenere l’”Impronta Ecologica” della città planetaria e reinserirla nell’ordine autoregolato della Natura. Tale strategia è tanto irrinunciabile quanto difficile da perseguire.

In primo luogo, perchè impone il mutamento del paradigma meccanicista e dello statuto funzionalista ancora dominanti.

In secondo luogo, perchè la riduzione dell’’Impronta Ecologica” incontrerà le resistenze più ostinate nei paesi immersi nella compulsione consumista.

Poichè la drammaticità delle patologie planetarie sfugge sempre più ai rimedi proposti, è evidente che occorrono nuove risposte radicali e impegnative.

Se l’architettura vuole contribuire alla costruzione della ineludibile prospettiva di “far pace col pianeta” (B. Commoner) ha l’elementare dovere di porre in discussione le sue certezze tecnocratiche e mercatiste, ormai insostenibili, e tendere alla rifondazione del suo statuto sulla base di una “Nuova Alleanza” con la Natura.

 

1.7. La tutela del Patrimonio storico e degli abitanti, dei siti antropizzati e delle comunità tardo-antiche.

La tutela del Patrimonio storico dell’umanità, in quanto bene unico e irriproducibile come quello della Natura, è di capitale importanza per la sopravvivenza dell’uomo e della sua memoria.

Nei paesi industrializzati, dove si riscontra una crescita demografica zero e una eccedenza di vani rispetto agli abitanti, è possibile attuare la difesa integrale della città storica perché rappresenta ormai una parte ridotta rispetto alla massiccia edificazione dal dopoguerra.

Nei paesi in via di sviluppo, tale tutela è più difficile perchè la città storica rischia di essere travolta dalla pressione demografica e urbana incontrollabile.

Ma tale crescita potrà essere soddisfatta realizzando fuori dai centri storici unità abitative bioclimatiche, con tecnologie radicate nel genius loci.

Intanto la salvaguardia delle preesistenze storiche deve essere accompagnata da quella delle comunità che le abitano, così come vanno protetti i siti antropizzati e le comunità tardo-antiche sopravvissute, garantendo il loro libero diritto alla biodiversità antropologica e culturale.

Soprattutto nella convinzione che: “…al passato non si può ritornare, ma proprio per questo la memoria e le vestigia del passato devono essere salvaguardate nel modo più radicale” (E. Severino, 2003)

 

1.8. Dall’economia dello spreco alla sobrietà post-consumista: la liberazione della coscienza omologata dell’uomo-massa.

Nel 1923 la incalzante richiesta di modernizzazione della civiltà di massa emergente in un Europa non ancora consumista era tale da legittimare il dilemma lecorbuseriano: architettura o rivoluzione!

Oggi la gravità delle patologie ambientali derivate dallo spreco impone un diverso e più grave dilemma: economia della sobrietà o collasso dell’ecosistema planetario!

La saggezza suggerisce di realizzare un’indifferibile rivoluzione dello stile di vita in senso post-consumista.

Essa deve contrastare il principio distruttivo che domina nel ciclo produzioneconsumo imponendo l’impero nichilista dell’effimero.

Infatti: “si producono merci per soddisfare bisogni, ma si producono bisogni per garantire la continuità della produzione delle merci” scrive U. Galimberti (2003); il quale ricorda che il consumismo è un “vizio nuovo sconosciuto alle generazioni che ci hanno preceduto”; e che “ogni pubblicità è un appello alla distruzione”.

Dunque, nella società low cost “usa e getta” occorre liberare la coscienza omologata dell’uomo-massa restituendogli la responsabilità individuale per distinguere sempre più il “diritto alla democrazia” dalla “tirannia della maggioranza” (A. de Tocqueville).

 

1.9. La città dell’era solare (Eliopolis) e delle energie rinnovabili: la riconversione dell’habitat planetario.

Nel 1957 il fisico americano Conant denunciava: “ad ogni minuto giunge sulla terra una quantità di energia pari a quella generata dalla combustione di 100 milioni di tonn. di lignite”; e concludeva: “non la fissione atomica bensì il sole costituirà la nostra futura fonte energetica”. Oggi i progressi nel solare termico e fotovoltaico confermano tale giudizio, ribadito da Carlo Rubbia: “nè petrolio, nè carbone, soltanto il solare può darci energia” (2008).

Nel 2000 i consumi energetici mondiali relativi alle diverse fonti risultano: per combustibili fossili, il 77%; nucleare, 6%; idroelettrico e biomasse tradizionale, 15%; nuove energie rinnovabili, appena il 2%. Quest’anno una Direttiva Europea prescrive l’aumento delle energie rinnovabili entro il 2020 dall’odierno 8,5% al 20%.

Intanto il tramonto dell’era dei combustibili fossili costituisce uno spartiacque energetico epocale che “richiederà una riconfigurazione completa dei settori dei trasporti, delle costruzioni e dell’elettricità” (J. Rifkin, 2007); in sintesi, una rifondazione dell’habitat planetario azionato dai cicli della biosfera.

In tale contesto l’architettura sarà “intelligente” non se sarà sovraccarica di impianti tecnici ma, al contrario, se li ridurrà riconvertendo quelli indispensabili, anzitutto ai “sistemi passivi”, quindi alle energie rinnovabili: solare, eolico, geotermico, idrogeno, biomasse, biocarburi, ecc.. La nuova architettura dell’era solare potrà immaginare Eliopolis, una struttura spaziale alimentata soprattutto dal sole che farà apparire l’architettura odierna, sempre più oberata da reti impiantistiche centralizzate: arcaica, costosa, invivibile. Questo potrà accelerare la rottamazione delle periferie dormitorio da sostituire con eco-city a sviluppo verticale ed autosufficienza energetica

 

1.10. La nuova civiltà entropica del riciclaggio, del controllo dell’inquinamento e dell’effetto serra.

La gravità e l’estensione dell’inquinamento planetario risulta evidente dalle visioni satellitari che mostrano la sua perfetta coincidenza con le aree megalopolitane.

Esso incalza nonostante l’adozione fino al 2000 di circa 230 trattati internazionali di interesse ambientale.

La situazione è ormai allarmante perché: “non esiste un rimedio tecnologico al fenomeno dell’effetto serra, la sola soluzione possibile consiste nell’eliminare la causa”, afferma J. Rifkin, che aggiunge: “l’alternativa allo spreco generalizzato di ogni energia disponibile e al riscaldamento del pianeta è una diffusione internazionale dei valori e delle regole del paradigma entropico”.

 

Pertanto, la nuova civiltà post-consumista si dovrà orientare su quattro punti cardinali: - attivare una duplice strategia di riduzione degli sprechi delle materie prime all’inizio del ciclo produttivo e di riciclaggio delle stesse dopo il loro uso; - ridurre drasticamente le emissioni di gas-serra (la Direttiva Europea del 23 gennaio 2008 prevede entro il 2020 la riduzione del 20% di CO2, CFC, protossido di azoto, metano rispetto al 1990) e accelerare il passaggio dall’era dei combustibili fossili all’era dell’energia rinnovabile; - rifondare il modello di sviluppo occidentale e la città planetaria in senso postconsumista, eco-metropolitano, rimettendoli in equilibrio con la Natura; - intraprendere una lungimirante politica non solo di difesa delle foreste attuali, ma di riforestazione del pianeta (che ancora 500 anni fa ne era estesamente coperto) facendola penetrare sempre più all’interno delle metropoli.

Questa strategia ha il compito storico di opporsi alla “posizione della civiltà moderna che dice: ‘aumenta i tuoi bisogni’” (M. Gandhi, ‘47).

In altri termini: “possiamo risolvere i problemi (che minacciano il pianeta) se abbandoniamo il modo di pensare (meccanicista) che li ha creati”.

 

1.11.   Un’architettura digitale come “protesi della Natura”, diritto alla biodiversità estetica, etica epolitica.

Se l’architettura dell’era elettronica, digitale, vuole contribuire a neutralizzare le patologie degli ecosistemi e delle grandi aree urbane, deve andare oltre i linguaggi autoreferenziali che le ignorano, siano essi accademici (neostoricistici, anti-post-modernisti, neo-tardo-razionalisti) o sperimentali (high tech o de-costruttivisti), ormai in fase involutiva.

Essa si dovrà orientare verso una nuova frontiera eco-metropolitana, postconsumista, per cui non potrà che ripartire dalla profezia della “living city”, quale organismo “vivente” in simbiosi con la Natura.

Pertanto, dovrà essere capace di conciliare le opportunità offerte dalla metropoli con le ragioni ineludibili dell’ecologia, al di là della resa alla dittatura tecnocratica o alle consolatorie nostalgie antiurbane.

In sintesi, l’architettura tenderà a configurarsi sempre più come una “protesi della Natura”, andando oltre il formalismo.

Essa si preciserà come un dinamismo plastico-spaziale imprevedibile, perché: bioclimatico, legato al genius loci, partecipato, espressione libertaria del vissuto esistenziale, dell’immaginario collettivo e del diritto alla biodiversità estetica, etica e politica.

 

A chi obietterà che tale strategia è opinabile o utopica, si può replicare che, viceversa, essa è obbligata e realistica!

Questo per tre ragioni capitali: l’imminente fine dell’era dei combustibili fossili, che indurrà la riconversione ad altre energie del ciclo produttivo e della città planetaria; la minaccia dell’effetto serra alla sopravvivenza del pianeta, che esige una svolta strategica verso la “pacificazione tra tecnosfera e ecosfera”; il fallimento etico del consumismo nichilista responsabile, in nome del superfluo, della distruzione della Natura. Ma tali smisurati problemi sono irrisolvibili senza la rivoluzionaria transizione culturale dal paradigma meccanicista a quello bio-ecologico capace di rimodellare la modernità sui cicli della Natura.

Questo nella convinzione che: “l’essenza della civiltà non consiste nella moltiplicazione dei desideri, ma nella deliberata e volontaria rinuncia ad essi” (M. Gandhi).

Intanto, i tempi per una svolta radicale si riducono sempre più e non la si può delegare a nessuno. Infatti: “di tutti gli organismi viventi sulla terra, solo noi esseri umani abbiamo la capacità di mutare consapevolmente il nostro agire. Se si deve fare pace col Pianeta, siamo noi a doverla fare” (B. Commoner).

10-VII-08, notizieradicali