furores nacionalistas en Extremo Oriente

Estremo Oriente: a ciascuno il suo nazionalismo

Il furore nazionalista che con crescente frequenza anima le piazze e orienta le dichiarazioni ufficiali in Cina, Giappone, Russia e Corea del Sud, impone una responsabilità in più agli Stati Uniti nell’ambito della scelta strategica del pivot to Asia. Responsabilità difficile da gestire, poiché l’escalation del nazionalismo appare una tendenza che, seppure sfociando in una propaganda a fini interni spesso simmetrica, in realtà cela una grande diversità di prospettive e motivazioni.

La Cina, pur preferendo talvolta definirsi un Paese in via di sviluppo e sottostimare le proprie potenzialità a fini tattici, muove dal presupposto di essere l’unica grande potenza emergente. Il suo nazionalismo si collega ad una spinta alla revisione degli equilibri di potere esistenti. Il Giappone avverte la necessità di rimodellare il suo ruolo nel contesto internazionale  (autorizzato e a tratti incoraggiato dagli Stati Uniti) per chiudere la fase in cui era condannato dalla storia ad essere un “nano politico”, e sembra leggere il suo futuro in chiave di aggressiva concorrenza con Cina e Corea del Sud. La Russia infine, obbligata a rielaborare la coscienza di sé sull’onda di un multipolarismo che l’ha declassata da superpotenza bipolare a BRIC (e forse neppure quello), rivolge il suo nazionalismo soprattutto verso i “fratelli ortodossi” europei, mentre vede l’Estremo Oriente, dentro e fuori i suoi confini, come fonte di rinascita economica. Essendo ognuna di queste opzioni estremamente complessa, il nazionalismo assume le funzioni di un contrappeso semplificatore insostituibile. Il suo appeal presso l’opinione pubblica interna rende più sicure e stabili le élite dirigenti consentendo l’elaborazione di strategie di ampio respiro che sono pertanto condizionate da istanze nazionalistiche ma non dettate da esse.

Anche l’impatto delle dispute territoriali su queste strategie è diverso da Paese a Paese. Per la Cina, se il vecchio contenzioso bilaterale con l’India (il mese scorso arricchitosi di nuove tensioni) si dipana in modo autonomo, le rivendicazioni su Mar Cinese meridionale e Mar Cinese orientale rientrano nella logica di un cambiamento di status che non può prescindere da una forte dose di assertività. E il rifiuto di affrontare il tema a livello di negoziato multilaterale, come richiesto dalle controparti e soprattutto dagli Stati Uniti, o attraverso l’arbitrato del Tribunale sul diritto del mare, è appunto il segnale di tale necessità. Lungo questa strada il nazionalismo diventa funzionale alla ricerca di un dialogo privilegiato con Washington, sulla falsariga di quell’ipotesi di un “G2” che sembrava avere perduto smalto ma che il summit Obama-Xi Jinping in giugno ha finito col riproporre. Pechino non intende dare credito all’assioma della diplomazia americana secondo cui solo chi opera per smussare i contrasti “merita” di essere considerato una grande potenza, ma è disponibile a gestire con cautela i rapporti con Washington: le ultime intese su Corea del Nord e cyber-spionaggio lo confermano. Semmai resta aperto l’interrogativo su fin dove la Cina sia disposta a spingersi (e a rischiare) per mettere in difficoltà Washington nel rapporto coi suoi alleati, verso i quali non risparmia rivendicazioni e invettive.

Quelle nei confronti del Giappone sono le più esplosive e stanno gradualmente salendo di tono. A gettare benzina sul fuoco hanno contribuito nelle ultime settimane le parole del nuovo premier cinese Li Keqiang (“i territori che il Giappone ha rubato ci devono essere restituiti”) e il dibattito “accademico” sulla ingiustificata presenza nipponica non solo alle Senkaku/Diaoyu ma nell’intero arcipelago delle Ryukyu, spina dorsale della presenza militare americana nel Pacifico occidentale. In risposta i giapponesi hanno chiesto e ottenuto che gli americani ribadissero l’inclusione delle Senkaku, in base agli accordi seguiti alla seconda guerra mondiale sotto amministrazione e non sotto sovranità giapponese, all’interno della sfera garantita dal Trattato di sicurezza nippo-americano. Sviluppo parallelo, interpretabile come una concessione di Tokyo alle richieste di Washington: dopo quasi un anno di totale gelo, giapponesi e sudcoreani tornano a parlarsi direttamente, sotto lo sguardo vigile del comune alleato americano, per concordare una linea comune nei confronti della Corea del Nord (nell’occasione del Forum Asean di Brunei, il 2 luglio). Ma questo non significa che l’impatto dell’ondata sciovinista sui rapporti tra Giappone e Corea del Sud sia da considerare solo una nuvola passeggera. Se è vero che il contenzioso tra i due Paesi riguardante gli scogli di Takeshma/Dokdo è meno dirompente di quello sino-giapponese sulle Senkaku, è anche vero che i reciproci sentimenti di avversione tra coreani e giapponesi, diffusi a livello popolare e quindi facilmente recepitili da politicanti in cerca di consensi, sono molto radicati. Lo confermano le dichiarazioni fatte sia dal premier Abe Shinzo, sulla necessità di una revisione storica del concetto di aggressione, sia dal sindaco di Osaka, Hashimoto Toru, sulla “necessità” per le forze di occupazione nipponiche di fare ricorso alle comfort women coreane. Dichiarazioni che hanno suscitato indignazione negli Stati Uniti e – sembra – anche i primi dubbi su dove possa portare l‘incoraggiamento al Giappone, in nome della strategia di contenimento della Cina, ad “assumersi le proprie responsabilità” nel campo della sicurezza collettiva.

Nondimeno Barack Obama deve salvaguardare e addirittura potenziare il sistema di alleanze vigente. Ha pertanto la necessità di rassicurare i suoi alleati: qualunque tipo di partnership si instaurerà con Pechino, essa potrà prendere corpo solo se non influirà sulla sicurezza dei Paesi-amici. Ma Obama non può fingere di ignorare che Il Giappone si muove su un’altra lunghezza d’onda. Il nazionalismo che ora Abe sventola (e a maggior ragione lo farà se vincerà le elezioni per il rinnovo del Senato del mese prossimo) suona come parte integrante di una politica che dà voce al recupero di un pesante bagaglio culturale mai sepolto (le “provocatorie” visite al santuario Yasukuni insegnano), ma maneggiato sempre all’ombra della soggezione nei confronti di Washington. La Costituzione pacifista era il simbolo di questa sudditanza, oltre che il fiore all’occhiello di un Giappone che si immaginava davvero rinnovato. Ora è all’ordine del giorno emendare l’articolo 9 della Costituzione, che vieta al Giappone di dotarsi di vere e proprie forze armate. Abe cavalca l’orgoglio ritrovato e spinge per una revisione radicale, che “normalizzi” il Paese. L’opposizione rappresentata dal Partito democratico è debole, e può dunque solo fare ricorso all’ansia, unico sentimento che oggi sembra in grado di contrapporsi al nazionalismo, ma che è certo di scarsa utilità per gli americani. Questa dinamica  suscita infatti o dovrebbe suscitare l’interrogativo: “cosa accadrà quando il Giappone sarà dotato della capacità di lanciare missili intercontinentali?”

La Russia in questo contesto sembra tentata di vestire i panni del mediatore o quanto meno del partner utile ed affidabile per tutti gli attori regionali. Un ruolo che gioverebbe alle rinnovate ambizioni di potenza di Mosca, proponendola come contrappeso alla presenza americana. Il nazionalismo di Vladimir Putin si traduce allora, quando si rivolge a Cina e Giappone, in una richiesta di cooperazione basata sul più chiaro degli interessi comuni: la complementarità in campo energetico. I problemi di sovranità complicano però il quadro in modo talvolta paradossale. A causa della questione delle Kurili meridionali, infatti, la Russia perde la sua capacità mediatrice e ondeggia tra avvicinamenti alle tesi antigiapponesi della Cina e l’auspicata equidistanza tra le parti. La mancanza, a quasi 70 anni dalla fine del conflitto mondiale, di un trattato di pace con Tokyo è prova di questa ambivalenza sebbene Mosca, a differenza di Seul e Pechino, non ritenga di avere conti aperti col nazionalismo nipponico. Le recenti visite a Mosca sia di Xi Jinping sia di Abe hanno lasciato ogni ipotesi aperta sulle “preferenze” di Putin. La Cina attrae ma bisogna imparare a non esserne soffocati e a “difendere” le posizioni russe in vari scacchieri, Asia centrale in testa. Le Kurili d’altra parte possono aspettare con piena soddisfazione dei contrapposti nazionalismi giapponese e russo; quanto a investimenti e tecnologia nipponica, nessuno dubita che potranno approdare in Siberia anche senza Trattato di pace.