"Emma Bonino, la malattia come cittadinanza", Guido Vitiello
Emma Bonino, la malattia come cittadinanza
Tanti anni fa mi divertivo a immaginare che la scomparsa del Partito radicale dalla vita italiana – in un giorno che mi auguravo e che tuttora mi auguro molto, molto lontano – potesse avvenire come nel finale del Rocky Horror Picture Show.
Con un colpo di teatro, si scopre che la sede di via di Torre Argentina a Roma, proprio come il castello gotico del film, era in realtà un’astronave camuffata; Marco Pannella ed Emma Bonino, che in questa ipotesi fantascientifica equivarrebbero al factotum Riff Raff e alla domestica Magenta, fanno decollare il palazzo da terra lasciando tutti con tanto di naso e riportano quel partito extraterrestre, oggetto politico non identificato e non integrabile dalle culture nazionali dominanti, in qualche galassia remota. Nel Rocky Horror, ricorderete, si trattava del pianeta Transsexual, nella galassia di Transylvania. Non escludo che il Partito radicale sia stato catapultato quaggiù dallo stesso sistema stellare.
Ripenso con un po’ di malinconia a queste fantasticherie di adolescente ora che mi ritrovo con i due capi storici del partito alieno ammalati della stessa malattia molto terrestre. Emma Bonino ha chiesto ai mezzi d’informazione la cortesia di non fare pettegolezzi, di non indagare, di disinteressarsi dei suoi casi. “Io non sono il mio tumore”, ha detto nel suo messaggio a Radio Radicale, dissociandosi dalla sua stessa malattia e ribadendo che nei limiti del possibile proseguirà come prima la sua lotta politica.
Anche se le circostanze sono incomparabili, mi ha ricordato la tenacia con cui la studiosa di letteratura ed ex deportata Ruth Klüger, nel libro di memorie Vivere ancora, ricacciava la tentazione di identificarsi con le proprie sventure e insisteva a dire di essere nata a Vienna, non ad Auschwitz, e di essere dunque “sopravvissuta”, sì, ma non “una sopravvissuta”. Ammalarsi non significa trasformarsi integralmente in un altro essere, il malato.
Non parlerò del tumore di Emma Bonino, per le stesse ragioni di riserbo per le quali mi sono sentito legittimato a parlare, l’agosto scorso, dei due tumori di Marco Pannella. Con Emma, ha detto ieri l’amico e compagno di una vita, ci troviamo ancora una volta ad affrontare la stessa battaglia. Ma gli stili dei due capi radicali sono diversi, e anche stavolta c’è un discrimine sottile che è tuttavia ben visibile.
Marco è capace di rendere pubblici e politici perfino i suoi tumori, proprio come è stato capace, per decenni, di politicizzare integralmente la propria esistenza biologica, dai bollettini dei digiuni all’urina bevuta in tv. Senza alcuna remora parla del modo in cui il cancro interferisce con i suoi scioperi della sete, insomma combatte la sua lotta attraverso la malattia, mentre Emma Bonino annuncia di volerlo fare nonostante la malattia. Sono due varianti di una stessa concezione della politica, che cancella quasi del tutto le distinzioni tra la persona empirica e il suo ruolo pubblico, tra vita e militanza, e che non prevede congedi per malattia perché, lo ha ricordato Emma Bonino nel suo messaggio, “da una passione politica non ci si può dimettere”.
La Bonino ha chiuso il suo annuncio radiofonico invitando gli ascoltatori, tra le lacrime, a iscriversi al partito, un invito che suona piuttosto irrituale per chi non conosce i radicali, e che ha già spinto le iene dattilografe dei commenti sui social network a parlare di una “strumentalizzazione” della malattia. Accusa ignobile e piena di sottintesi ignobili, certo, ma che opportunamente capovolta contiene pure un elemento – nobile – di verità.
È vero, il Partito radicale è da sempre, e in piena coscienza, un partito di strumentalizzatori; tutto sta a intendere quale sia lo strumento, quale il rapporto tra i mezzi e i fini, quale lo spazio aperto tra gli uni e gli altri, uno spazio che, notava Alessandro Capriccioli, è “la vera invenzione rivoluzionaria di Marco Pannella”.
Di tutte queste cose, credo, nessuno ha saputo scrivere meglio di Luigi Manconi in un articolo di quasi quindici anni fa, che ho ritagliato e conservato. Apparve sul Foglio del 19 aprile 2001, in occasione della candidatura come capolista radicale di Luca Coscioni, malato di sclerosi laterale amiotrofica. Vale la pena di riproporne almeno il brano centrale:
Mentre, in altri, il corpo è simbolo o metafora (il “corpo sociale”, il “corpo militante”), nei radicali il corpo è principio e fine della politica: e dunque – con altrettanta piena dignità – mezzo e strumento.
Da qui l’importanza attribuita – fino all’ossessione e al rischio di svalutazione – al digiuno (non solo una forma di lotta); da qui il fatto che nei momenti politicamente piu felici (che non corrispondono, di necessità, a quelli di maggiore consenso) è sempre il corpo, nella sua fisicità, a costituire il centro (il cuore) della politica radicale. Lo fu, appunto, con l’aborto: ed era un corpo ancora più difficile da trattare perché femminile: dunque, di genere e sessuato.
E lo fu, poi, con il corpo prigioniero di Toni Negri e con il corpo pornografico di Ilona Staller: e, ora, col corpo malato di Luca Coscioni (l’accostamento può scandalizzare chiunque, tranne i radicali). In tutti quei casi, mezzo e fine – come in ogni “bella politica” – coincidono perfettamente e tematizzano plasticamente (corposamente) la contraddizione che si vuole evidenziare: quella della libertà personale (dell’habeas corpus, appunto), nel caso di Negri; quella della libertà su di sé e sulla propria sessualità (anche nella sua versione più sgangherata), nel caso della Staller; quella della libertà terapeutica, nel caso di Luca Coscioni. In tutt’e tre le vicende, il corpo viene messo in gioco: o, meglio, diventa posta in gioco e gioco d’azzardo.
Qual è il tema del conflitto oggi tematizzato? È, ancora, la vita. O, meglio, il vivere: non come esistenza sociale o come destino collettivo, ma proprio come salute del corpo e della mente (dell’individuo).
Tutti quelli che nascono hanno una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e nel regno dello star male, scriveva Susan Sontag in un saggio sulle metafore del cancro e dell’aids. Aggiungeva che vorremmo usare solo il passaporto buono, ma siamo costretti di tanto in tanto a usare anche quello cattivo, a emigrare nel regno della malattia e a viverci per un periodo più o meno lungo.
Credo che la metafora di Sontag si debba percorrere fino in fondo, perché di solito la malattia è percepita come la cessazione temporanea della cittadinanza, non come un secondo luogo dove esercitare i propri diritti civili e politici. Transnazionali anche in questo, i radicali hanno dimostrato per più di mezzo secolo, fino all’annuncio di Emma Bonino, che si può fare lotta politica con entrambi i passaporti, quello buono e quello cattivo, muovendosi tra i due regni della salute e della malattia. Sarà perché sono migranti spaziali, sbarcati a via di Torre Argentina da qualche pianeta lontano.