intervista sull'anarco-radicalismo a Fabio Massimo Nicosia

Intervista sull'anarco-radicalismo

 

Di Domenico Letizia

Intervistiamo Fabio Massimo Nicosia avvocato, giurista, teorico del diritto e della politica, ha pubblicato diversi volumi e diversi saggi, tanto nel diritto amministrativo, quanto nella filosofia del diritto e della politica. Discutiamo di libertarismo, anarchismo, percorsi di liberazione libertaria e del Partito Radicale.

Fabio, tu sei noto come anarco-capitalista anche se da tempo hai ripudiato questa etichetta…
Vale la pena di precisare che io non nasco anarco-capitalista, ma anarchico e radicale, almeno da quando ho l’età della ragione. Prima, tra i dodici e i quattordici anni mi definivo di estrema destra, ma in proposito debbo una spiegazione. Io vengo da una famiglia liberale, e mia madre mi raccontava che in Russia vigeva un regime comunista illiberale. Io, ingenuamente, pensai che se a sinistra regnava la negazione della libertà, fosse necessario andare il più possibile dalla parte opposta per trovare la libertà al massimo grado, quindi la mia motivazione era già libertaria. Naturalmente era un infantilismo, ma non così insensato se riferito a un contesto diverso dal nostro, gli Stati Uniti dove, come si racconta, Thoreau era un eroe della “Old Right”. Senonché presto mi resi conto che la nostra estrema destra, l’Msi, era tutt’altro che liberale o libertaria, e devo questo ai radicali con le loro battaglie su divorzio, legge “Valpreda” sui termini di carcerazione preventiva, obiezione di coscienza, etc., che vedevano sempre l’Msi sul fronte opposto. In particolare, per il mio passaggio a “sinistra” fu fondamentale il referendum sul divorzio, quando compresi che tale battaglia non riguardava solo una materia particolare e circoscritta, ma investiva tutto un modo di pensare. Diciamo che i radicali mi hanno salvato.

Ma tu dicevi di essere anarchico e radicale.
Infatti. Intanto che mi rendevo conto della bontà libertaria delle battaglie radicali, a scuola il professore di filosofia ci fece studiare Stirner e Proudhon e io rimasi affascinato, per cui innestai le
iniziative specifiche radicali sul tronco della cultura anarchica. In altre parole, divenni un anarchico riformista (come del resto sono adesso, quindi posso dire di essere coerente da quarant’anni), nel senso che immaginavo le battaglie radicali per l’ampliamento delle libertà come altrettanti passi graduali verso una società coerentemente libertaria.

Come avvenne il tuo incontro con l’anarco-capitalismo, o anarco-liberismo, e che cosa ti attrasse allora?
L’incontro avvenne con la scoperta di una rivistina, “Claustrofobia”, redatta interamente da Riccardo La Conca, che poi divenne mio caro amico, pur nel dissenso su alcuni punti. Ciò che mi piaceva di Claustrofobia e di La Conca era lo sforzo di coniugare un’opzione drastica a favore dei diritti civili, con un linguaggio anche più forte di quello radicale, con il favore per la libertà di iniziativa economica. La Conca faceva questo ragionamento: nel mondo occidentale noi abbiamo di fronte, normalmente, due schieramenti: uno di destra o, come diremmo oggi, di centro-destra, tendenzialmente favorevole alle libertà economiche, ma tiepido sui diritti civili; e uno di sinistra o centro-sinistra, meno favorevole alle libertà economiche, ma più disponibile sui diritti civili. Egli definiva questi due schieramenti “eterosintetici”, in quanto incoerenti e volti a coniugare approcci contraddittori. Ad essi La Conca contrapponeva l’approccio libertarian, “omosintetico”, in quanto coerentemente fautore tanto delle libertà economiche, quanto delle libertà civili. Senonché ci deve essere qualcosa che non funziona in tale ragionamento, se tale situazione non solo è rimasta sostanzialmente tale e quale, ma è anche diffusa in tutto il mondo sviluppato. Non solo: gli stessi libertarians sono col tempo divenuti più timidi sui diritti civili, con l’affermarsi delle posizioni cosiddette “paleo-libertarians”. Il fatto è che la sinistra considera la libertà economica alla stregua di una libertà di sfruttare gli oppressi, rischiando di fare di ogni erba un fascio, ma non senza qualche ragione.

Puoi spiegarti meglio?
A parte polemiche contingenti con alcuni esponenti degli anarco-capitalisti di seconda generazione, sulle quali penso torneremo, è questa la ragione fondamentale che mi ha fatto abbandonare, ritenendolo insufficiente, l’approccio anarco-capitalista, restio a prendere sul serio la questione della legittimità dei titoli di proprietà, nonostante che Rothbard non ignori l’argomento, ma lo risolve insoddisfacentemente, argomentando che ogni titolo di proprietà attuale deve ritenersi storicamente legittimo fino a prova del contrario. Più radicalmente, Rothbard e gli anarco-capitalisti, pur dichiarando di rifarsi a John Locke, trascurano, anzi, Rothbard censura, che per Locke la terra è in origine di tutti e quindi non sono ammesse apprensioni individuali che danneggino gli altri. Più precisamente, Locke sostiene che gli impossessamenti sono legittimi, a condizione che permangano altrettanti beni e altrettanto buoni per tutti. E’ questo il cosiddetto proviso di Locke, che introduce un elemento radicalmente egualitario in una dottrina da tutti considerata liberale. E si noti che se Rothbard ignora e censura il proviso, altrettanto non fa Robert Nozick, che su tale base influenzerà i left-libertarian. Ora, io dico, se la terra è originariamente di tutti, i casi sono due: o tutti devono essere proprietari, o i non proprietari devono essere indennizzati dai proprietari, e ciò mi pone automaticamente fuori dalla scuola anarco-capitalista. Si è trattato di una mia evoluzione e di una presa di coscienza.

Ma tu hai parlato anche di dissensi per altre ragioni con gli anarco-capitalisti italiani di seconda generazione (intendendo per prima sostanzialmente il solo La Conca).
Sì. Lo scontro avvenne alla fine degli anni ‘90. Io ero impregnato di cultura radicale (diritti civili, libertà del corpo, tendenzialmente favorevole alla controcultura), mentre loro erano leghisti, favorevoli alle secessioni o comunque al confederalismo di marca paleo-americana. Io, a differenza anche di molti anarchici classici, antichi e moderni, che pure stimo (da Proudhon a Berneri a Colin Ward), non ho mai avuto molto calore per la piccola dimensione istituzionale, e conferma ne ho tratto dalla constatazione che i nostri sindaci, quando hanno visto rafforzato il loro potere di ordinanza, ne hanno approfittato per adottare provvedimenti restrittivi della libertà, piuttosto che ampliativi. Ma veniamo al punto. Lo scontro fu occasionato da una discussione sui diritti degli omosessuali (espressione che uso per comodità, perché per me non esistono individui omosessuali, ma comportamenti omosessuali, da chiunque siano posti in essere). Orbene, io sostenevo che, in un contesto come quello americano, tra una legge di uno stato membro che penalizzasse comportamenti omosessuali, e una sentenza della Corte suprema che li liberalizzasse, io sarei stato dalla parte della Corte suprema (che ad esempio ha liberalizzato l’aborto negli Usa) e contro lo stato membro. Al che mi è stato opposto, non senza arroganza, che io non conoscevo “l’ABC del libertarismo” che tutela i diritti degli stati contro lo Stato federale centrale. A me di siffatti diritti degli stati non me ne è mai fregato nulla, anche se so che sono molto sentiti in una certa cultura americana e da chi se ne fa portavoce da noi. Pare che lo stesso Rothbard abbia subito questa attrazione in materia di aborto: mentre originariamente egli considerava il feto un parassita che la donna, proprietaria del proprio corpo, aveva tutto il diritto di espellere, successivamente avrebbe sostenuto che la delicata materia andasse devoluta ai singoli “stati” in nome del federalismo.

Un’altra questione ti ha subito diviso dai rothbardiani, quella del giusnaturalismo.
Sì. Io sono di scuola positivista e sono soprattutto un realista giuridico. Con tale scuola condivido l’idea che termini come “diritto soggettivo”, “obbligo giuridico”, a tacere dei “doveri morali”, sono entità metafisiche che non hanno alcun riscontro nel mondo reale. Io penso invece che sussistano facoltà naturali, che non sono “diritti”, ma dati di fatto. Rothbard è invece convinto che esistano “diritti naturali” infrangibili, ma ciò è confutato dal fatto che io posso scavalcare una recinzione ed entrare in un “diritto di proprietà” altrui: sarà onere di costui saper dimostrare l’effettività della sua pretesa e di scacciarmi, ma se non ci riesce la mia facoltà naturale avrà avuto il sopravvento. Il “tu devi” di A, diceva Nowell-Smith, non fa scaturire alcun “obbligo” in capo a B. Ciò non deve far pensare che io sia favorevole a una società fondata sul caos e sull’arbitrio. Semplicemente penso che siano le reciproche pressioni che si svolgono nel mercato a fissare i paletti dei nostri rispettivi comportamenti.
Tu sei stato definito un “nipotino” di Bruno Leoni, secondo il quale l’ordine giuridico è fondato sullo scambio di pretese individuali e funziona sostanzialmente come un mercato economico.
Più precisamente, io sono un “nipotino” di Alf Ross, il grande realista giuridico danese e dei realisti scandinavi e americani, come il giudice Oliver Wendell Holmes, secondo il quale non esiste altro diritto che quello applicato dai giudici nei tribunali. Lo studio di Leoni, al quale mi sono apprestato su cortese incoraggiamento del professor Raimondo Cubeddu, che ho conosciuto a un congresso radicale, mi è servito per radicalizzare il mio individualismo nell’approccio realistico. In altri termini, se Holmes dice che il diritto è quello applicato dai giudici, noi sappiamo, in base alla teoria dell’individualismo metodologico, che noi siamo tutti “giudici”, e quindi tutti noi, quando agiamo, costituiamo fonte del diritto, sicché la scienza giuridica si sovrappone alla teoria dell’azione razionale, e far diritto significa prevedere la condotta degli esseri umani, comunque si manifesti. Quanto a Leoni, se egli dice che l’ordine giuridico funziona “come” un mercato, io mi sforzo di andare oltre, e sostengo che ordinamento giuridico e mercato si sovrappongono e coincidono, dato che a ogni pretesa giuridica corrisponde una pretesa economica e viceversa. 

A tale proposito, qualcuno ti imputa un impiego eccessivamente esteso del termine “mercato”, che tu utilizzeresti in un’accezione indebitamente metaforica.
Non penso che si tratti di un’accezione “metaforica”. Io penso in effetti che il mercato sia un sistema e un’ambiente (per usare i termini di Luhmann) autopoietico e autoreferenziale, un ordine costituzionale di pesi e contrappesi naturali, nei quali ognuno esercita pressioni nei confronti di tutti, e ciò ne fa qualcosa di più vivo dell’accezione economica, perché l’equilibrio che ne deriva non è tra innocue “preferenze”, ma tra “pretese”, che sono preferenze accompagnate dalla minaccia dell’uso della forza, che non costituisce monopolio di uno Stato, ma è risorsa e pre-risorsa a disposizione di chiunque. In altri termini, il mercato, con la sua pressione, ci comunica quali condotte sono premiate e quali punite, secondo un calcolo costi benefici, e si noti che in inglese free significa tanto libero quanto gratuito, ossia non disincentivato dalle condotte altrui.

Perché accetti la nozione di “mercato” e non quella di “capitalismo”?
A parte considerazioni etimologiche, che pure sono importanti e ho svolto in altra sede, occorre considerare che il termine “capitalismo” è storicamente connotato in senso negativo, in quanto designa una particolare classe sociale che si è storicamente imposta con l’ausilio dello strumento monopolistico dello Stato, e quando utilizziamo le parole non possiamo prescindere dalle sedimentazioni storiche.

Veniamo invece ai radicali. Che cosa ne pensi del loro continuo rifarsi all’idea di “Stato di diritto”?
Occorre anzitutto notare che tale opzione appartiene a una fase successiva dello sviluppo radicale, e cioè a quando Pannella, sulla scorta della lotta contro lo “sterminio per fame nel mondo”, fece approvare un “preambolo” allo statuto del partito, nel quale si affermava solennemente che il diritto e la legge costituivano diritto e legge “anche politici” del partito radicale. In precedenza, Pannella parlava più volentieri, e secondo me più fondatamente, di un diritto che potesse costituire strumento di deperimento del potere. Il fatto è che lo “Stato di diritto” rappresenta anzitutto un’utopia (lo stesso Pannella parlava della “grande utopia dello Stato di diritto”, e in termini simili si è espresso il noto filosofo del diritto Luigi Ferrajoli) non meno e forse più dell’anarchia. In effetti, è piuttosto utopistica l’aspirazione che gli uomini di potere siano e si sentano vincolati dal diritto, tanto più che essi possono modificarlo a piacere attraverso gli strumenti della legislazione e della stessa revisione costituzionale. A ciò si aggiunga che difficilmente le principali battaglie radicali si fanno e si sono fatte intrappolare nella gabbia dello “Stato di diritto”, checché ne dicano Pannella e i suoi fedelissimi seguaci. Che cosa c’entrano divorzio, aborto, obiezione di coscienza, amnistia, antiproibizionismo, con lo Stato di diritto? Nessuna norma di rango superiore o supremo, costituzionale o di diritto internazionale imponeva o impone divorzio contro indissolubilità del matrimonio, oppure, per venire a tempi più recenti, amnistia piuttosto che altro. E’ pur vero che la Corte Europea dei diritti dell’uomo ha condannato l’Italia per lo stato delle sue carceri, ma ciò non basta a ricavarne la necessità di un’amnistia. Ad esempio, qualcuno potrebbe sostenere che ci vogliono più carceri. Non voglio essere frainteso, io sono favorevole all’amnistia, nonché a un percorso di superamento dell’istituto carcerario, che è storicamente connotato, come è avvenuto per i manicomi, in favore di case famiglia e simili. Solo dico che tali opzioni sono frutto di una nostra scelta di libertà e dignità, che non è affatto imposta da un supposto rispetto dei principi dello Stato di diritto. Allo stesso modo, la battaglia antiproibizionista viene malamente radicata sul fatto che la proibizione fa prosperare la criminalità organizzata, sicché nostro compito sarebbe di impedire tali illeciti profitti. Come dire che se tale illecito arricchimento non vi fosse la battaglia antiproibizionista perderebbe il suo più forte argomento. Io penso invece che si debba avere il coraggio di sostenere che così come alcune generazioni prediligono un cognac o un vinello come “droga” ricreativa, altre devono avere il pieno diritto di svagarsi con uno “spinello”, senza cadere nel ricatto della salvaguardia della gioventù, ultimo rifugio dei mascalzoni, come si suol dire. Ti pare normale che un cinquantenne possa lecitamente passare la serata sorseggiando whiskey, mentre se vuole fumare hashish deve rischiare la patente o il passaporto?

A tal proposito, tu hai sviluppato anche una critica del diritto penale.
Sì. Io non contesto solo l’istituzione carceraria, ma ho profonde riserve anche sul diritto penale in quanto tale, anzitutto sulla sua pretesa di sindacare il “foro interno” delle persone in nome di pseudo-concetti, per tornare ad Alf Ross, come “colpa, responsabilità e pena”. Sostengo invece da tempo che, una volta eliminati i cosiddetti reati senza vittime, quelli che non comportano alcun danno per i terzi, i singoli reati possano essere trasformati in fattispecie tipicizzanti di illeciti civili, comportando, sulla base di un comprovato nesso di causalità tra atto e danno, un risarcimento di quest’ultimo in capo al danneggiato.

Abbiamo parlato soprattutto di anarco-capitalismo e di radicali. Ma che cosa ti attrae dell’anarchismo classico, dal quale sei partito e al quale sembri essere tornato?
Tante cose. La passione per la libertà, il non timore di apparire utopisti nel proclamarla, ma anche il pluralismo e la ricchezza delle posizioni. Da Godwin a Kropotkin, da Proudhon a Malatesta, da Bakunin a Ward, la lettura di questi classici e moderni fornisce sempre stimoli e sorprese, pur quando non si condivide tutto, ma è impossibile dato che tali autori sono anche diversi tra loro. Come nota il mio amico Pietro Adamo, tuttavia, si può notare negli ultimi decenni un crescendo dell’approccio fallibilista e possibilista, per il quale non esistono modelli da imporre, in favore, come nell’ultimo Malatesta, della libera sperimentazione di modelli alternativi. E poi la messa in crisi del mito rivoluzionario, in favore della costruzione sin dall’oggi di reti alternative di condotte, di monete, di liberi scambi non inquinati dal grande capitale monopolistico, ecc.

Tu però ti sei pronunciato in favore del “governo libertario” e hai pure scritto un volume intitolato “Il dittatore libertario”
Sì, ma io non ho mai sostenuto che tale governo possa minimamente funzionare se non sostenuto da una moltitudine di consapevoli dotati di quella che chiamo “inclinazione libertaria”. Il problema, semmai, è che sono pessimista sulla diffusione di questa inclinazione. Si dice che il governo libertario non può funzionare perché la libertà non si può imporre. Io non penso. Ritengo infatti che se un “autoritario” mi impedisce di leggere un libro di mio gradimento, io o miei sodali possiamo “impedire l’impedimento”, con ciò imponendo la libertà, la mia e quella degli altri, a chi vorrebbe conculcarcela. L’idea del “governo libertario” è del resto coerente con il mio approccio riformista e gradualista, nonché positivista e realista, volto appunto a trasformare in diritto positivo vigente i principi dell’inclinazione libertaria, in un percorso da qui all’infinito, che non esclude a priori alcuna possibile utopia.

http://www.radicalianarchici.it/p/intervista-sullanarco-radicalismo.html