"Il nuovo manifesto radicale", Fabio Massimo Nicosia (II)

2. L’idiocrazia

Va a questo punto precisato che non coglie nel segno la diffusa polemica ostile al mercato, svolta da certi “anticapitalisti” , che agitano in proposito l’usurata formula del “neo-liberismo” o del “liberismo selvaggio”. E’ infatti banale, ma non superfluo, ribadire che il “capitalismo” che conosciamo –e non certo da oggi - ha ben poco a che fare con il modello del mercato imperturbato, e che oggi, il “selvaggio” è tutt’altro che un liberismo sano. Si tratta infatti di un fenomeno in gran parte fiorito all’ombra dello Stato o degli organismi internazionali superstatuali -sicchè, se i no-global attaccano tali organismi, essi fanno inconsapevolmente una battaglia liberista-. alla cui incessante azione, di regolazione o di intervento diretto, si devono gran parte degli arricchimenti e degl’impoverimenti conosciuti nella modernità, così come si deve alla decisione “pubblica” dello Stato l’assegnazione preliminare dei diritti di proprietà e in genere dei titoli legali. Non solo. Come vedremo di qui a poco, il fenomeno ha assunto in tempi recenti la consistenza di una nuova forma “idiocratica” dell’articolazione stessa del pubblico potere in un forse inedito intreccio col grande capitale, monstrum “privatistico” e appunto “capitalistico”, che ricorda per taluni aspetti il modello feudale, e in parte quello canonico, peggiorati dalla sporcatura aziendalistica e dai laminati plastici, metafora di un’architettura scadente quale quella dei palazzi in cui operano le relative attività.
Un’eclatante conferma si ricava dal testo di un insider del sistema di edificazione del cosiddetto capitalismo globale –che alla luce della descrizione si rivela piuttosto un nuovo genus di “capitalismo assistito”- ad opera dell’”impero” . L’autore descrive un impressionante intreccio -che egli definisce “corporatocrazia”, dalla radice dell’inglese “corporation”, società per azioni, per quanto sia ravvisabile un’affinità con le letture più stataliste del corporativismo fascista -, tra poteri dello Stato, istituzioni internazionali come la Banca Mondiale , imprese petrolifere, dell’energia elettrica, delle infrastrutture e dell’edilizia, società di consulenza e revisione, collegate tanto al governo quanto alle corporations, e governi locali corrotti e dittatoriali, soprattutto quando fornitori di petrolio, ma non solo. Il tutto volto ad arricchire, attraverso le commesse e gli appalti pubblici, le imprese stesse e i governanti, a scapito delle popolazioni locali. Queste vengono infatti indotte artatamente all’indebitamento per realizzare “grandi opere pubbliche”, inutili e spesso dannose, e comunque sovradimensionate da stime di fabbisogno di comodo, con il pretesto della promessa di un rapido sviluppo tecnologico dei loro paesi, sì da vincolarli altresì a politiche internazionali subordinate rispetto a quella del governo U.S.A.. Con l’aggiunta che gli esponenti di tale governo sono stati spesso personalmente coinvolti, come nel caso dei Bush, in quelle operazioni speculative, in un conflitto di interessi di proporzioni colossali.
Se ne ricava che, contrariamente a quanto si ritiene comunemente, la dottrina economica che presiede a tale fenomeno non è quella cosiddetta liberista, ma all’opposto quella keynesiana , fondata sull’attiva e decisiva iniziativa statale, in una sorta di “neo-mercantilismo” di guerra, che non ha nulla a che vedere col mercato correttamente inteso, considerando che le devastazioni sono altrettante occasioni di ricostruzioni, e quindi di appalti di opere pubbliche di immani dimensioni e di dimensione transnazionale, secondo la consueta logica keynesiana, ispirata al modello del “Monello” di Charlot: prima devasto e poi ricostruisco.
Sulla base di tali elementi, è il caso di riflettere ancora sulle forme che lo Stato viene assumendo nella contemporaneità, del suo procedere per “privatizzazioni” del tutto fittizie, o meglio, che tali sono, ma al di fuori di un sistema di mercato; privatizzazioni, il cui scopo è solo quello di distribuire il potere per lotti integrati, e sottrarre le relative operazioni al controllo (parlando ancora degli U.S.A.) del Congresso e in genere alle verifiche di legittimità; sicché persino le multinazionali appaiono oggi, certo non espressione di “liberismo”, come credono i critici di sinistra più ingenui, ma articolazioni transnazionali e formalmente privatistiche, e quindi (ecco il trucco) “libere”, della nuova forma-Stato e della sua azione di rapina e spoliazione.
Il punto cruciale è che la depredazione viene favorita dalla forma privatistica, per mistificatorie ragioni di diritto positivo, artificiosamente ispirate a una sistematica tradizionale, del tutto inadeguata alla nuova situazione. Sicché viene consentito allo “pseudo-privato” ciò che a un’istituzione pubblica, almeno in parte imbrigliata dal principio di legalità proprio dello Stato di diritto, oltre che soggetta al giudizio dell’opinione pubblica, non verrebbe consentito. Anche se occorre riconoscere che talora dottrina e giurisprudenza, almeno in Europa, hanno cercato di porre un freno a tale funesta deriva, sia pure tra contraddizioni, conseguenti all’idiosincrasia anglo-sassone per la scienza del diritto amministrativo, della quale Albert Dicey costituisce la più nota espressione.
Se, in un contesto di monopolio nella produzione giuridica, l’atto del potere pubblico viene ricostruito, come sempre più spesso si tende a prospettare, nei termini dell’atto di diritto privato, ci troviamo innanzi a una grave mistificazione, data l’assenza totale di concorrenza nel quadro in cui viene adottato. Lungi dal rappresentare un passaggio dal monopolio, proprio del diritto pubblico, al sistema del mercato, saremmo di fronte a una regressione verso lo Stato patrimoniale, con perdita secca delle garanzie che il diritto pubblico classico impone all’attività del pubblico potere.
Il problema dei fautori delle garanzie del costituzionalismo liberale non è allora, come sembra si sia destinati a fare, introdurre il diritto privato nell’attività dello Stato (altra cosa sarebbe assoggettare lo Stato ai principi civilistici), ma, semmai, esattamente all’opposto, introdurre il diritto pubblico nell’attività dei monopoli e oligopoli privati che quello Stato stanno progressivamente sostituendo, in nome di un “anarco-capitalismo” del tutto malinteso.
Solo superficialmente, quindi, un libertario, o anche un marxista, dovrebbero gioire per quelli che, inquadrati storicamente, potrebbero rivelarsi come solo apparenti passi nella direzione dell’estinzione dello Stato, come l’abbiamo conosciuto nella modernità, inteso come apparato separato dal resto della società. Dato che occorre sempre guardarsi da quelli che paiono progressi della storia che, alla prova dei fatti, si rivelano sonori passi indietro. Ad esempio, si consideri che un atto di diritto privato, contrariamente a un atto di diritto pubblico, può essere annullato solo per errore, dolo e violenza, e non può essere sindacato nei motivi e nei fini.
Il deciso dislocamento dell’attività statuale, o già statuale, nell’area del diritto privato determina poi un’altra conseguenza paradossale: l’attrazione dell’atto del potere nell’ambito dell’attività puramente politica e non giuridificata. L’atto politico condivide con l’atto di diritto privato l’esser libero nel fine: l’intera attività politica, pre-costituzionale e pre-amministrativa, si svolge del resto con strumenti privatistici, e forse addirittura pre-privatistici, ossia non giuridicamente rilevanti.
D’altra parte, è di tutte le teorie classiche e moderne dello Stato attribuire allo stesso una fondazione privatistica, quale è il contratto sociale, sia esso quello di di Hobbes o di Rawls, ovvero una convenzione spontanea e consuetudinaria alla Hume, o, per certi versi, alla Nozick.
Nella politica della modernità, si procede a sua volta “privatisticamente”, attraverso patti e convenzioni tra politici e partiti (patto del Nazareno…), prima ancora che tra istituzioni, salvo che, a differenza di quanto avviene nel mercato, i relativi atti sono opachi, in quanto appartenenti agli arcana imperii, ove la trasparenza auspicata dal diritto pubblico non perviene.
Si è detto che tale processo storico, secondo cui il diritto pubblico trova sostituzione tendenziale nel diritto privato, ha una formula politica non ufficiale in alcune correnti di pensiero che, a nostro modo di vedere, hanno usurpato l’etichetta anarco-capitalista; ma si tratta appunto di una mistificazione, perché dell’anarco-capitalismo manca l’elemento fondante, che è la concorrenza e il mercato. Non ci stupiremmo un giorno di trovarci di fronte a un Parlamento s.p.a. e a un Governo s.r.l., senza che il monopolio del potere ne risulti minimamente intaccato; esso risulterebbe anzi addirittura consolidato, per il recedere dei momenti di partecipazione dei cittadini alle decisioni collettive. Qualcuno preda di facili entusiasmi asserirebbe che si tratterebbe comunque di una situazione “senza Stato”, ma il passaggio dai marmi e dai graniti, ai laminati plastici e al vetro-resina, non muta la sostanza, ma solo la parvenza.
Ma, forse la cosa sorprenderà di più, tale tendenza trova un precedente anche in alcune teorizzazioni leniniane, come quando il leader della rivoluzione russa immaginava di ridurre tutta l’attività statale “a semplici operazioni di registrazione, d’iscrizione, di controllo, da poter essere compiute da tutti i cittadini con un minimo di istruzione e per un normale ‘salario da operai’” . E ancora: “Riduciamo i funzionari dello Stato alla funzione di semplici esecutori dei nostri incarichi, alla funzione di ‘sorveglianti e di contabili’, modestamente retribuiti, responsabili e revocabili” .
Senonché, tanto l’attività statuale viene resa semplice, vincolata ed esecutiva, quanto le scelte di fondo politiche, quelle che riguardano la risoluzione dei conflitti tra interessi, venivano “privatizzate”, in quanto affidate all’insindacabile decisionismo del Partito dei lavoratori, così come avviene ed è avvenuto da noi con la “partitocrazia”. Il massimo tentativo di attuazione pratica di simili principi si ebbe, come è noto, con la Costituzione cinese del 1975, con la quale, in nome di una travisata e strumentale lettura della teoria marxiana dell’estinzione dello Stato, si facevano tendenzialmente deperire i residui di Stato di diritto, per porre le istituzioni pubbliche totalmente al servizio del dominio del “privato” Partito Comunista. Sicché, in base a tale ordine di idee, dovremmo forse ritenere che lo Stato comunista, leninista, maoista e post-maoista, sia “non autoritativo”, in quanto i suoi atti siano o vincolati, o frutto di soggetti formalmente privati, posti a monte di quello Stato?
E’ vero invece che, se le parole hanno un senso non orwelliano, può essere considerato “non autoritativo” solo l’atto che, in circostanze simili, potrebbe essere adottato da qualunque altro soggetto del mercato, in regime di reciprocità.
Chiediamoci invece che cosa accadrebbe se il monopolio di diritto, di diritto pubblico, fosse sostituito da un monopolio di diritto, ma di diritto privato. I suoi momenti coercitivi sarebbero liberi da impacci, ma verrebbe meno ogni legittimazione a quel monopolio, se è vero che, come riconosce lo stesso Nozick, solo la superiore qualità delle sue procedure, rispetto agli ipotetici concorrenti, potrebbe in ipotesi giustificare il monopolio stesso.
Un monopolio di diritto “di diritto privato” sarebbe piuttosto l’equivalente di una proprietà di dimensione “nazionale”, sicché, per stabilire se un “proprietario nazionale” sia o no preferibile rispetto a uno Stato costituzionale, dovremmo confrontare i rispettivi poteri sulla base dei principi. Ad esempio, il proprietario privato potrebbe anzitutto discriminare nelle proprie scelte, sicché non varrebbe il precetto ex art. 3 della Costituzione repubblicana. Né varrebbe l’art. 97, perché, per i privati, il principio di buona amministrazione trova sanzione solo attraverso l’istituto del fallimento, ma non prevede di norma la funzionalizzazione dell’impresa, il suo assoggettamento a criteri giuridicamente vincolanti di buona amministrazione momento dopo momento.
Eppure gli atti del proprietario sarebbero comunque “autoritativi”, in quanto atti non soggetti alla concorrenza, ma di un monopolista di diritto, e tuttavia “insindacabili” come non lo fossero. Il proprietario, è vero, potrebbe dotarsi delle stesse regole di uno Stato costituzionale, ma ciò farebbe a suo esclusivo piacimento, non tenuto a ciò da alcuna regola di partecipazione alle decisioni da parte degli individui non proprietari che stazionano nella sua proprietà. I quali sarebbero quindi totalmente in balia delle decisioni, qualificate dai plaudatores “libere” e “autonome”, del proprietario.
In definitiva, privatizzare lo Stato, ma contro e senza la libera concorrenza, semplicemente non conviene dal punto di vista della libertà individuale, oltre a consentire “sonori passi indietro” rispetto all’ordinamento costituzionale liberal-democratico.
Alla luce di quanto sopra, come definire più tecnicamente quella “corporatocrazia”? E’ il caso di riprendere, anche con intento satirico, lo spunto di Hanna Arendt, che ci ricorda come, per gli antichi greci, “una vita spesa nell’esperienza privata di ‘ciò che è proprio’ (idion), fuori dal mondo comune, è ‘idiota’ per definizione” . Sicché possiamo noi ora parlare, per contrassegnare questo sistema di “privati”, che ambiscono a farsi “potere pubblico” o a ereditarne lo scettro con la menzogna, di “idiocrazia” . A dire il vero, se è idiota chi si fa i fatti propri, è ancora più idiota chi molesta: l’idiocrate si caratterizza per il fatto tanto di farsi i fatti propri, quanto per molestare gli altri, attraverso il controllo del monopolio della forza. Un’idiocrazia “aziendalistica”, se è vero che l’ambizione di siffatto sistema è di parcellizzare, destrutturare apparentemente, per ristrutturare il potere, organandolo per aziende che hanno introiettato il principio burocratico in nome del celebrato “management” , diffondendo tra detti soggetti quella sovranità, che l’evaporazione dell’elemento territoriale classico vuole rendere adespota. Sicché disponiamo oggi di “privati”, che concentrano, sia pure ripartendoselo, il monopolio della forza –del resto, non solo il governo, ma anche la produzione richiede forza fisica - e pretendono appartenenza necessaria (si pensi alle varie casse di previdenza), che pretendono di riscuotere importi unilateralmente, quasi si ritenessero investite di chissà quale irrinunciabile funzione; “società” che rilasciano certificazioni indispensabili per legge o che dispensano sanzioni amministrative, e si impongono transterritorialmente, secondo un malinteso concetto di “decentramento” ; ma anche di “privati” che esercitano una supremazia di fatto sul territorio, esercitando diritti di superficie o servitù, concessi loro da amministrazioni, ormai autospoliatesi di quasi ogni potere, che gestiscono secondo modelli di controllo sociale improntati all’uso delle tecnologie (videocamere, etc.), sovente ispirati all’ignobile ideale delle gabbie giustapposte. Fondi-pensione e aziende capitalistiche che lucrano sul “silenzio-assenso” per incamerare i soldi dei lavoratori; per non parlare della Banca d’Italia, oggetto di un tecnicamente penoso, mistificatorio e abietto tentativo di contrabbandarla per “privata” –eppure certo non fallisce, né va in liquidazione coatta amministrativa-, ente, organismo di diritto pubblico in quanto esercita poteri autoritativi e sovrani sulle banche e su quanto residua del mercato, e che tuttavia, in un grottesco conflitto d’interessi, è dominato dalle banche stesse, essendo Bankitalia di proprietà dei più forti tra gl’istituti di credito! Oligopolisti protetti, e padroni del proprio “controllore”! Il tutto gabellato per “partecipazione”, o magari “democrazia economica”, come si diceva una volta: prodotti malati della “fantasia” al potere, con uno scopo ben preciso: sottrarsi all’impaccio della legittimità.
Se lo Stato nazionale, in un siffatto contesto, non è ancora assorbito dalla forma esteriore privatistica, ciò si deve fondamentalmente a due fattori: a) le imprese in forma societaria multinazionale capitalistico-idiocratiche non risultano ancora dotate di un loro proprio fondamento di legittimazione adeguato e persuasivo per la massa dei cittadini, dato che non sarebbe attualmente proponibile uno Stato-Coca-cola, o uno Stato Microsoft; b) Lo Stato appare a costoro tuttora estremamente utile per dar vita incessantemente a una normativa di favore nei loro confronti, rinforzando le loro posizioni monopolistiche od oligopolistiche –invertendo il trend della tradizione social-democratica-, verosimilmente fino al momento in cui tale opera sia ritenuta completata.
Diversamente da quanto auspicava Marx, pertanto, non stiamo assistendo a uno sviluppo a pieno ritmo di un capitalismo che, in preda delle proprie contraddizioni, si auto-estingue e con sè estingue lo Stato, ma a un imprevisto fenomeno di organica osmosi tra quel capitalismo -forte di istituti di tradizione statalistica quali il brevetto, il copyright, il marchio e in genere il monopolio protetto dal cosiddetto “diritto industriale” (intellectual property), che in realtà è diritto pubblico coercitivo, risalente almeno all’epoca della concessione dei feudi, dei munera e delle cariche nobiliari più parassitarie- e lo Stato stesso. Di tal che l’estinzione di quest’ultimo non condurrebbe a una fase più alta e spiritualmente elevata dello sviluppo umano, ma a un deciso passo indietro nella direzione del dominio di classe e dell’uomo sull’uomo da parte di un ceto avido, incolto e spregiudicato (i cosiddetti top managers economico-finanziari, appunto, e i loro sodali politici, cointeressenti, se non, spesso, coincidenti), avallato dal fondamento di legittimazione dello Stato e dello stato precedenti e, quindi, dalla stessa inerzia della popolazione nei confronti del consolidarsi di questi fenomeni: dato che è il sistema di credenze popolari a munire i fenomeni stessi dei processi, loro indispensabili, di ristrutturazione della legittimazione.
Tipico di siffatta idiocrazia è l’aver mutuato, come in un processo di osmosi, il peggio della burocrazia storica come la conosciamo, nonché tutte le sue inefficienze. Basta fare la coda da un “MCDonald” o in un supermercato per rendercene conto; costantemente ci vengono opposti “regolamenti” inderogabili, come nemmeno capita ormai più con la burocrazia “pubblica”. Ad esempio, una volta in un MCDonald ci hanno rifiutato un bicchiere d’acqua, in quanto non previsto dal regolamento; a volte sembra che, nel ricambio generazionale, tra public sector e idiocrazia vi sia stata addirittura un’osmosi, oltre che di mentalità -talora addirittura in peggio, dato il precipitare delle condizioni della nostra scuola pubblica e privata-, anche di management, o di precari e di personale avventizio. In alcuni supermercati, dopo essere stati costretti a prestazioni lavorative gratuite del tutto estranee alla fattispecie contrattuale, e terminato la coda alla cassa, ti chiedono di fare un’altra coda, quella per vidimare il biglietto del parking! Di tal che vien quasi l’idea di sviluppare il discorso di Widar Cesarini Sforza sul “diritto pubblico dei privati”, per configurare una nuova categoria, quella dell’atto amministrativo privato, che, in teoria, non sarebbe altro da una proposta contrattuale ex art. 1341 o 1342 c.c., oltretutto soggetta al canone interpretatio contra stipulatorem; ma che viene vissuto dagli operatori, ma purtroppo anche dall’utenza e dalla clientela, come fonte di imperativi di fatto, giuridicamente del tutto insussistenti e privi di alcuna vincolatività, la cui implementazione è affidata a personale improvvisato e impreparato.
Val la pena di sottolineare un altro aspetto particolare, rilevante dal punto di vista tecnico-giuridico: tutti gli agenti dell’”idiocrazia”, con i quali noi entriamo quotidianamente in contatto, al di là delle pompose qualifiche funzionali delle quali si rivestono nel linguaggio cosiddetto manageriale (businnes manager, market manager, commercial marketing, preferred clients, principal, e altre dizioni pretenziose ed enfatiche), sono solo “commessi dell’imprenditore” ai sensi dell’art. 2210 c.c. Essi sono infatti privi di alcun potere di trattativa, non essendo titolari, ai sensi dell’art. 2211 c.c., di alcun “potere di derogare alle condizioni generali di contratto”, fissate dall’imprenditore, ove esistente: di imprenditore non è però davvero il caso di parlare, trattandosi di struttura interamente organizzata in forma burocratica. Quello con il quale entriamo giorno dopo giorno in relazione, è quindi appunto solo un apparato burocratico, meramente esecutivo di ordini di un “alto”, altrettanto burocratico e impersonale, che noi non conosciamo e non vedremo mai, se non forse in televisione, con il quale non abbiamo diritto di parola e di trattativa contrattuale, giacché nemmeno il capo-reparto di un supermercato o di un McDonald dispone del potere di derogare alle condizioni prefissate della proposta di prezzo e delle altre condizioni del rapporto, sempre ai sensi dell’art. 2211 c.c.
Tale “privata” idiocrazia, nei rapporti con il pubblico, ha dunque introiettato il peggio della mentalità burocratica (“il dottore è fuori stanza” tanto nel pubblico, quanto nel privato), forse addirittura oltre quanto lo stesso Stato, nel caso italiano, impregnato talora dell’anticorpo della cultura “meridionale”, che ha in uggia il legalismo esasperato e formalistico fine a sé stesso, abbia fatto in passato. Il che non esclude certo che sempre vi siano state brutalità e pestaggi, tuttora diffusi, da parte delle polizie. Ma si coglie, in quell’atteggiamento “meridionale”, una certa influenza dell’ipocrisia farisaica, volta a non prendere del tutto sul serio il diritto scritto, ammiccando alla contestuale vigenza di consuetudini contra o praeter legem che vorrebbero apparire talora più “bonarie”, laddove nell’idiocrazia si coglie una componente più marcatamente sadducea, ammantata da malinteso “efficientismo” –un che di ben diverso dalla nozione economica di efficienza- alla “ragiunatt” milanese, e non è detto che nel cambio ci si guadagni, dato che, all’apparente ammorbidimento consuetudinario della rigidità normativa del cosiddetto “Stato di diritto”, l’idiocrazia ha fatto propria un’idolatria della “legge”, accompagnata da consuetudini interpretative addirittura più restrittive del testo normativo stesso, conformato proprio in modo da poterle consentire senza prevedere rimedi adeguati all’interno del sistema stesso.
Diciamo che, rispetto alla fase ammantata di formalismo statuale, l’idiocrazia è un potere che ha gettato quasi del tutto la maschera, sicché dove non arriva la norma scritta, giunge la mano armata della “prassi”. L’idiocrazia rappresenta perciò una sorta di fase suprema della burocrazia, tutta incentrata com’è sulla valorizzazione di elementi organizzatorii fini a sé stessi tutti interni all’azienda, mutuando le tipiche modalità indifferenti al risultato –garantito dalle provvidenze pubbliche- della mentalità burocratica, negando il carattere proprio, comunemente attribuito al settore privato, che dovrebbe essere quello di mostrare attitudine a soddisfare le aspettative del mercato e i bisogni dei consumatori. Ci si chiederà allora come aziende siffatte riescano a sopravvivere, visto che disprezzano clienti e potenziali clienti (banche che rifiutano l’apertura di conti correnti, finanziarie che rifiutano finanziamenti di poche migliaia di euro a clienti con centinaia di migliaia di euro nel conto corrente), le cui esigenze sono loro indifferenti, ma la risposta la si è già fornita, e cioè che non di mercato si tratta, ma di tanti monopoli e oligopoli coercitivi, giustapposti e integrati, di fatto mantenuti dalla redistribuzione del denaro pubblico da parte del potere politico, che opera alle loro dipendenze, quando non si tratta addirittura delle stesse persone, come avviene platealmente in Italia, negli U.S.A., con le grandi famiglie presidenziali, e in Russia, con l’”amico Putin”, accolita di affaristi, annidati allo snodo dei vertici pubblico-privati del sistema.
Sulla “mentalità burocratica” e “idiocratica” andrebbe sviluppato uno studio, del tipo di quello diretto da Adorno sulla personalità autoritaria, per denunciare la propensione di alcuni, attaccati -evidentemente eredi degli antichi sadducei-, nemmeno tanto alla lettera della norma, quanto a una sua accezione asfittica, come si è visto. E ancor più d’attualità sarebbe oggi uno studio sulla mentalità idiocratica, nella quale confluiscono il peggio di quella pubblica e il peggio di quella privata: si pensi all’approccio di alcune telefoniste aziendali, che, quando chiami, ti chiedono sempre: “Lei di che società è?”, quasi che un privato, per esser tale, debba per forza appartenere a una qualche s.p.a.; fino al punto che qualcuno ha sostenuto che un essere individuale non sarebbe mai un “privato” in quanto tale (ad esempio non lo sarebbe un dipendente pubblico), ma che per assurgere a privato occorrerebbe appunto costituirsi in s.p.a., ossia in un ordinamento burocratico, almeno per come è concepito oggi nella pratica!
E il sistema idiocratico prosegue nella sua velleità di tutto pervasivamente controllare, attraverso la schiavitù di una mediocre tecnologia: carte di credito che registrano ogni nostro personalissimo acquisto, telecomandi con decine di tasti, di cui solo tre o quattro utili; telefoni cellulari pieni di comandi superflui, che informano di ogni nostro movimento e segnalano il nostro espatrio, “Fidaty Card” che registrano il contenuto della nostra spesa e vendono, non si sa a chi, il nostro “profilo di consumatore”, in barba a ogni ridicola normativa sulla privacy (“mi mette una firmètta per la praivasi?”). E DVD che, dopo essere stati inseriti, ti chiedono ancora se vuoi vedere il film.
Lo stesso principio della polizia privata, una volta aziendalizzata secondo il modello idiocratico, quindi in assenza di reale concorrenza tra gl’interessi contrapposti, ha perduto gran parte della propria attrattiva, giacché l’esperienza che se ne è avuta fin qui è che il “poliziotto privato” finisce con il risultare esecutore di ordini, appunto “aziendali”, senza nemmeno quella sensibilità latamente “politica” che lo forze dell’ordine dello Stato liberale talora hanno saputo dimostrare in qualche momento del lontano passato nel dirimere controversie e nel prevenire, con buon senso, sia pure con un eccesso di paternalismo, i conflitti più irragionevoli, come almeno suggerisce il personaggio interpretato da Vittorio De Sica, maresciallo dei carabinieri in “Pane, amore e fantasia”.
E molto anarco-capitalismo e i suoi cascami hanno imboccato la mesta parabola di munire di giustificazione teorica siffatte impressionanti “innovazioni”, involuzioni d’intelligenza (non a caso l’etimologia ci ha suggerito uno sferzante “idiocrazia”), come si è visto, oligopolistiche e collusive, pessime oltretutto sotto il profilo della dottrina.
Quanto ne siamo lontani! E dire che, se anarchici classici e no global sbagliano oggi diagnosi sulla descritta natura dell’imperialismo delle multinazionali, che vanno ormai appunto qualificate nei termini del depositario e affidatario di quote coercitive di sovranità, gli anarco-capitalisti sembravano poter indicare orizzonti ben più appetibili, pur non vedendo tutta la verità, allorchè non comprendevano che un sistema di mercato svincolato dalla protezione e promozione statale, quale essi hanno sempre dichiarato di auspicare, avrebbe portato a conseguenze “rivoluzionarie” che essi stessi non mostravano di immaginare, e che forse non avrebbero nemmeno gradito: quell’anarco-capitalismo plus dixit quam voluit , e tuttavia diceva.
In definitiva, l’”idiocrazia” di cui sopra abbiamo parlato rappresenta solo una fase suprema e più sofisticata, nell’incontro statalismo-capitalismo monopolistico-socialdemocrazia, di un modello antico, riconducibile almeno in parte alla compravendita delle cariche e dei munera, vicende che peraltro non prevedevano il completo assorbimento delle istituzioni pubbliche nel concetto di “azienda privata” come oggi goffamente ci viene propinato dal gergo mass-mediale, malamente attinto da frettolose letture di teoria dell’organizzazione .
L’art. 2210 c.c. si attaglia perfettamente all’idiocrazia e al suo punto di implosione, consistente nell’evaporazione della figura imprenditoriale, sostituita da una gerarchia funzionariale intra-aziendale che non risponde a nessuno, stante la non necessità, per attività sostanzialmente assistite dalla finanza pubblica e dalla legislazione di privilegio, di fornire servizi efficienti, dato il recedere dell’interesse del consumatore in attività dal carattere spesso emulativo e vessatorio nei suoi confronti.
Il venir meno della figura imprenditoriale nell’idiocrazia determina la sua inefficienza, con conseguente schiavitù del consumatore, che lavora gratis per il supermercato da quando raccoglie la merce dagli scaffali a quando la introduce nei sacchetti o che deve andare a ritirarsi il “decoder” perché l’azienda ha altro da fare e si vede che non ama acquisire clientela, dato che si paga per visionare ogni singolo film, e senza decoder non si può guardare il film e quindi pagare. Un sistema pianificato a tavolino da “strateghi” e “managers” sulla base di mediocri nozioni di psicologia aziendale e del consumatore, elaborate in “briefing”, in “brainstorming”, la cui intelligenza e vivacità fa il paio con quella degli organi collegiali delle scuole e delle asl, di impianto quindi e ispirazione burocratica e “legalista” molto più di quanto si ritenga comunemente (i pareri dei legali sono molto richiesti, per essere e sentirsi “a posto”), da parte di soggetti nei quali lo stimolo dell’utile fondato sulla soddisfazione del consumatore è del tutto assente.
I prezzi dei beni e dei servizi, in questo quadro, non hanno valore di corrispettivo, ma di mera riscossione finalizzata al controllo individuale e sociale, dato che il potere e la ricchezza degli azionisti, di facciata od occulti, deriva sempre dalla virtualità finanziaria, mai dall’utile d’impresa, del resto inverificabile, data l’inaccessibilità dei bilanci reali, sempre che anche questi siano redatti in modo intelligente, e il carattere fittizio, anche per l’assoluta opinabilità di molte poste e cespiti, come nel caso della valutazione dei beni immobili, di quelli ufficiali e resi pubblici, o i cui presupposti siano elaborati attraverso due-diligence del tutto approssimative.
L’idiocrazia ribalta il luogo comune della teoria economica della sovranità delle preferenze del consumatore, dato che il di lei atteggiamento nei confronti del “cliente” non è dissimile da quello del vecchio apparato burocratico statale-ministeriale nei confronti del “suddito” e poi dell’”utente”: di disinteresse, in nome di una supremazia, che non ha nulla a che vedere con la capacità di acquisire consenso in un sistema concorrenziale.
La forma-burocrazia, di cui è espressione l’idiocrazia della decadenza “capitalistica”, ha attinto quindi dai modi comportamentali del pubblico impiego, dalle inefficienze della relativa sindacatocrazia (benché le inefficienze nel pubblico impiego non sono un mala quia mala, dato che possono rappresentare, in qualche caso, dei boicottaggi dall’interno), e da certe modalità organizzatrici proprie delle organizzazioni collaterali del PCI degli anni ’70, il tutto condito dalla scadente teorica e retorica del “managerismo”, avviata da noi dal fenomeno, negli anni ’80, del “rampantismo”, storicamente associato al PSI di Craxi e Martelli, al di là delle effettive responsabilità individuali -che portò però a un compenetrarsi pubblico-privato culturalmente più intenso di quanto non lasciasse prevedere il sistema IRI-partecipazioni statali-enti pubblici autarchici, prima fascista e poi democristiano-, per poi sfociare nel plebeo mito pseudo-efficientista del berlusconiano venditore porta a porta di polizze assicurative e finanziarie, dall’imbonitore televisivo dei vari “Aiazzone” e “Grappeggia”, del mobile moderno o antico “in legno massello” ed “estremamente valido”, e nella pianificazione urbanistica “convenzionata” e “contrattata” di dislocazione nel territorio dei relativi “capannoni” (PIP, quasi interi comuni destinati a zone industriali D, etc.), che trovano una prima vivace caratterizzazione e ricostruzione anche teorica nel personaggio del brianzolo venditore di divani “Lillo” del simpatico attore comico lombardo di Luino (quindi quasi svizzero) Massimo Boldi (“vien zue a trovarmi”).
In quel punto di implosione si viene a determinare l’intersezione con l’altro elemento portante del sistema idiocratico, ossia la sua compenetrazione strutturale, quindi anche fisica, di quelle attività con beni demaniali e pubblici, con devoluzioni di quote di potere sovrano attraverso il monopolio della moneta, resa artificialmente risorsa “scarsa” e “limitata” attorno alla quale competere –laddove si tratta, in quanto virtuale, di risorsa intrinsecamente inesauribile- con il meccanismo delle cosiddette concessioni di servizio pubblico –che sono in primo luogo concessioni di poteri autoritativi-, con la conseguenza che la proposta di contabilizzazione nei bilanci degli enti pubblici territoriali del valore di stima di mercato (metodo “Lange”) di quei beni e di quei servizi, taglierebbe l’erba sotto i piedi di quel sistema idiocratico, che si nutre esattamente dell’appropriazione esclusiva di quel valore, che non risulta né dai bilanci pubblici, né da quelli “privati” aziendali.
Questi “privati”, infatti, si giovano dell’imponente valore economico di quei beni, di quel suolo, di quelle concessioni in esclusiva della titolarità di servizi e di poteri, che quindi vengono sottratti alla generalità degli individui, con una perdita secca, dato che il trasferimento di ricchezza e di risorse dalla collettività al soggetto privilegiato non viene evidenziato né politicamente, né giuridicamente, o almeno non contabilmente, non consentendo al cittadino comune di acquisire la consapevolezza che il suo impoverimento non è frutto di “spontanei” e “naturali” meccanismi di mercato, ma di scelte politico-amministrative che tengono celato quel trasferimento forzoso di potere e di ricchezza, spacciato per “scelta pubblica” ed effettuata a tutela di “interessi pubblici” del tutto indeterminati e imprecisati, come nel caso delle cartolarizzazioni immobiliari.
Sicché il profitto dell'idiocrate si fonda sistematicamente sulla legislazione coercitiva, sull'obbligo di stipulare contratti di assicurazione, sull'obbligo di versare importi a titolo "previdenziale", sull'obbligo di adesione a questa o quella corporazione, sull'obbligo di acquistare caschi di protezione, cinture di sicurezza, giubbotti catarifrangenti, sedie a cinque piedi invece che a quattro, su obblighi di manutenzione periodica, sull'obbligo di ristrutturazione di impianti elettrici, in assenza di che -data la mancata previsione del reddito di esistenza, conseguente all'occultamento delle ricchezze comuni- intere categorie non saprebbero come guadagnarsi da vivere, stante l'assenza di una domanda di mercato in tutti quei settori.
A tale fenomeno si accompagna una devastazione culturale e delle idee, dato che i soggetti che si locupletano attraverso l’uso forzoso della mano pubblica, fanno ciò ammantati dell’ideologia e della formula politica “liberista” e delle “privatizzazioni”, sicché chi ne denuncia il carattere truffaldino si espone alla facile contraccusa di “statalismo”, laddove al contrario è palese che gli “statalisti” sono esattamente coloro i quali, costituiti in cartello idiocratico attorno alla sovranità, utilizzano gli strumenti formali e di coercizione materiale per acquisire e, in questo senso sì, “privatizzare”, risorse che sono originariamente comuni, sovrapponendo abusivamente l’idea che una risorsa comune sia “statale”, e che quindi sia “statalista” chi rivendica il carattere comune della risorsa sottratta ed impossessata unilateralmente dai soggetti in grado di accedere agli strumenti propri della coercizione statale.
Si direbbe perciò che siamo innanzi a un gioco delle tre carte, a un cambiare le carte in tavola di portata storica, che ha indotto in errore anche i critici di sinistra, convinti davvero di essere in lotta contro un sistema “capitalistico” e “di mercato”, nel quale però l’elemento capitalistico è totalmente assente, dato che l’idiocrate non rischia mai capitale proprio in vista della produzione di un profitto sulla base del consenso dei consumatori; in realtà non rischia nulla, se non di soccombere nella competizione in senso lato politica, ivi compresa l’eventualità che il popolo dei “consumatori” smascheri l’imbroglio, determinando, con il venir meno alla radice del consenso al sistema, il suo crollo e appunto la sua “implosione”.
Tale prospettiva risulta del resto agevolata dall’attuale assetto dei poteri, una volta individuato il bandolo della matassa dell’intreccio pubblico-privato nell’istituto concessorio beni-servizi, e guadagnata consapevolezza collettiva e il conseguente favorevole rapporto di forza.
Il carattere formalmente “privatistico” dei soggetti egemoni nell’idiocrazia rende agevole, sul piano tecnico e teorico, l’obiezione che costoro non possono sensatamente e legittimamente rivendicare esclusive e “appartenenza necessaria”, pena l’incorrenza nell’istituto dell’abuso di posizione dominante, a dir poco, data l’irrazionalità della pretesa che ne determina ipso facto la nullità (voidness), conseguenza del resto implicita nello stesso istituto, che ha consacrato l’illiceità continentale dello ius abutendi. E il fatto che i beni demaniali siano rimasti pubblici e non siano stati mai privatizzati, se non nell’uso –ma in vari casi vale l’istituto dell’accessione con riferimento alle costruzioni accessorie e pertinenziali-, rappresenta un vantaggio, dato che ciò consente di procedere alla mera contabilizzazione loro e dei servizi dagli stessi consentiti (strade e autostrade, anzitutto, ma anche coste, lidi, spiagge, demanio idrico, il cielo, sulla base del principio per il quale la proprietà si estende usque ad sidera et inferos, e quindi il sottosuolo, cave, torbiere, miniere, e ancor più in profondità, etc.), senza la necessità di ricorrere a complesse e politicamente delicate procedure e operazioni espropriative -se non con riferimento ai beni degli enti ecclesiastici, salvo approfondimento della natura giuridica del loro possesso da parte di quegli enti alla luce del concordato e del trattato con la “Santa sede”-, dato che si tratta di beni già ab origine “nazionali”, che non richiedono alcuna ulteriore “nazionalizzazione”, ma solo l’atto formale del loro riconoscimento, della loro individuazione e della loro contabilizzazione.
Una volta private del supporto finanziario virtuale in esclusiva, dell’uso del bene demaniale e dei privilegi normativi costitutivi di monopoli e riserve, le aziende capisaldo del sistema idiocratico (istituti di credito, società di assicurazione, enti di assistenza e previdenza pubblici e privati, sistema dei mass-media radio-televisivi, sistema integrato della sanità pubblico-privata, caso tipico in cui l’intervento pubblico massimizza i profitti privati, produzioni assistite dalla legislazione vincolistica e di “obbligo” di rifornimento, etc.), semplicemente si affloscerebbero, dissolvendosi nel mercato aperto, avviando quel processo di transizione dalla fuoriuscita dell’istituto burocratico-aziendale, del quale abbiamo parlato in passato, soprattutto alla luce del primo elemento, il superamento dell’esclusiva nella monetarità virtuale e la diffusione universale di questa.
Con la generalizzazione della virtualità monetaria (“rendita di esistenza”, libero conio) verrebbero inoltre meno tutti i parassitari passaggi della filiera commerciale imposti solo dalla necessità di giustificare redditi e rendite monopolistiche, dato che i soggetti coinvolti sarebbero liberati dal legame a situazioni lavorative prive di significato imprenditoriale, che, per “giustificare” artificiose distribuzioni di denaro, incrementano dolosamente i costi di transazione e vivi -invece che ridurre quelli naturali o inevitabili, date fisicità e dimensione spazio-temporale, come sarebbe tipico dell’essenza di una funzione imprenditoriale vera e propria-, con la conseguenza che oggi, ad esempio, bibite che sono poco più di una spruzzata d’acqua, zucchero e colorante costano l’equivalente di migliaia di lire, invece che pochi centesimi, o di essere distribuiti gratuitamente al consumatore!
Una volta ravvisata la superfluità e il carattere meramente emulativo delle aziende protette dalla legislazione e dalla finanza amministrata e riassorbite queste nel mercato, o comunque venutone meno il carattere privilegiato in caso di servizi effettivamente utili, i loro beni, ove non siano immediatamente riutilizzabili sulla base dei principi civilistici, potrebbero costituire oggetto di una procedura espropriativa trilaterale ai sensi della legge del 1865, che consente il trasferimento della titolarità di un bene, non allo Stato –questo il contributo innovativo della nostra proposta di “transizione” rispetto a quella marxiana, ma a terzi, e quindi in favore di società o di cooperative, non in mano “pubblica-statale”, ma delle quali ogni cittadino sia titolare di un’azione, o di una quota negoziabile, di pari valore, determinando, con la socializzazione di quei beni, il loro affidamento a un effettivo mercato paritario e in equilibrio –ogni singolo individuo sarebbe, come detto, titolare di una pari quota-, e non a un mercato fittizio, come è avvenuto nel caso di dismissioni e cartolarizzazioni nel quindicennio che abbiamo alle spalle, dai provvedimenti Amato del 1992 a quelli Tremonti della legislatura 2001-2006, approccio che però non appare ancora tramontato.
In definitiva, una nota di ottimismo va però accennata. L’idiocrazia, insistendo sul proprio carattere privato, scava sotto i propri piedi, perché nessuno è tenuto a rapporti con privati, che possono essere solo volontari. Alla luce di tale considerazione, siamo pronti a una rivalutazione del fenomeno, se scopriremo che in realtà sia il frutto di una strategia particolarmente acuta di estinzione dello Stato, che richiede solo una fase di passaggio di sacrificio -così come il fascismo, sulla spinta della propria sinistra (anche di matrice anarco-sindacalista) tendeva alla devoluzione delle funzioni statuali a una quantità di soggetti, i “corpi” e gli enti autarchici, che, nella prospettiva, avrebbe potuto essere a sua volta considerata una strategia di estinzione dello Stato-. In tal caso, ma solo in tal caso, chapeaux!
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2/5