"Il nuovo manifesto radicale", Fabio Massimo Nicosia (III)

3. Contabilizzazione dei beni demaniali e rendita di esistenza.

Occorre muovere da un apparente assioma: la Terra è originariamente di tutti e non di nessuno, è res communis e non res nullius. Perché si tratta di un assioma solo apparente? Perché in realtà si tratta del corollario di un ragionamento articolato.
Il punto di partenza, elementare, è che le parole di A, i suoi comportamenti, non sono in grado da soli di costituire obblighi giuridici in capo a B. Ne deriva che le apprensioni unilaterali di porzioni di territorio non sono in grado di costituire, in assenza di consenso, idonea proprietà. Ne deriva ancora che, in assenza di consenso, dette appropriazioni comportino un compenso in favore dei non proprietari. Ovvero, che un consenso debba comportare una qualche compensazione, in assenza di che il non proprietario non può ritenersi vincolato a rispettare la proprietà altrui.
In conclusione di tale ragionamento si ricava appunto che la Terra è comunione di tutti, almeno originariamente. E, come si vede, il fondamento di tale conclusione è, a dispetto di quello che si potrebbe pensare, libertario e individualista.
Questa è la base logica-teorica della rendita di esistenza. La rendita di esistenza è quell’istituto per il quale un cittadino, per il solo fatto di esistere, essendo comunque comunista in senso civilistico dei beni della Terra, ha diritto a una rendita ricardiana sulla propria quota di mondo.
Per Ricardo, infatti, “Rendita è la parte del prodotto della terra corrisposta al proprietario quale compenso dell’uso dei poteri originari e indistruttibili del suolo” ; e poiché, nel geo-comunismo originario, tutti sono comproprietari pro quota del suolo, quella rendita spetta a tutti in egual misura, quale compenso per le attività di chi su quel suolo le pratica. In sostanza, si tratterebbe di individuare il valore di mercato del complesso degli usi attuali del mondo e, su tale base, calcolare quotidianamente (attraverso una vera e propria borsa) il valore della nuda proprietà, dividendo il valore complessivo per il numero degli abitanti della Terra. Ognuno sarebbe proprietario di una quota di mondo, e tale quota, uguale per tutti, avrebbe un valore costantemente aggiornato. I possessori di terra sarebbero tenuti a versare la propria quota in proporzione al valore di mercato del bene particolare posseduto, che del resto è provvista monetaria sottratta alla comunità.
A nostro avviso, come avrò modo di argomentare oltre, non si tratta di un istituto statalistico (come lo è il reddito di cittadinanza previsto in molti Paesi d’Europa), tuttavia non v’è dubbio che, in una fase di transizione, dello stesso debba farsi carico lo Stato. Si oppone di solito a tale genere di proposte che lo Stato non avrebbe fondi sufficienti per far fronte a un simile dispendio di costi. Ma si tratta di una mistificazione, come illustrerò.
Ma vediamo prima la ragione storico-politico dell’istituto che si viene proponendo. Si dice che, in conseguenza dei processi di automazione in corso, ad esempio negli Stati Uniti, nei prossimi anni, il 47% dei posti di lavoro verrà sostituito dalle macchine; si pensi che sono già in fase avanzata di studi gli aerei senza pilota. Infatti ciò non vale solo per i lavori manuali o di basso livello, ma anche per le professioni intellettuali, che trovano in Internet un grande strumento di concorrenza. Possiamo cioè immaginare un futuro senza giudici e senza avvocati, senza commercialisti e senza consulenti del lavoro, e ben pochi ne sentirebbero la mancanza. E magari la guerra la farebbero i robot tra di loro, se ai droni di attacco si affiancheranno i droni di difesa.
Sicché tutte le invocazioni a difesa del posto del lavoro, alla lotta contro la disoccupazione, appaiono ormai fuori tempo e reazionarie, come reazionarie da moltissimo tempo appaiono le politiche sindacali, tutte tese a difendere un’etica del lavoro, perniciosa e oramai senza ragion d’essere, come argomentarono, in tempi assai lontani Paul Lafargue e Bertrand Russel, con le loro apologie dell’ozio. Del tutto illusorie appaiono perciò le affermazioni di alcuni, secondo le quali il mercato, una volta persi i posti di lavoro, ne creerebbe di nuovi. A parte il fatto che non necessariamente ne creerebbe per chi il lavoro l’ha perso, ciò poteva forse valere una volta, ma non oggi, dato che oggi, e sempre di più in futuro, assistiamo a una rivoluzione strutturale nella direzione del sempre meno lavoro, e questo francamente non mi sembra un male, se entriamo nell’ordine di idee di scindere concettualmente “reddito” da “lavoro”. Quello che conta è che le persone abbiano di che vivere, non che abbiano di che lavorare, magari in aziende decotte, intasando strade, facendo i pendolari, inquinando, intristendosi, e chi più ne ha più ne metta. Ovvero realizzando opere pubbliche keynesiane dannose, come le inutilissime ma costosissime rotonde che, negli anni scorsi, hanno invaso le nostre città.
Ma, si diceva, non ci sarebbero le risorse per raggiungere un simile risultato. A parte il fatto che lo Stato sociale burocratico che oggi conosciamo è estremamente costoso, ma ha anche il difetto di essere selettivo e autoritario, ed è tutto da vedere che sia meno costoso dell’ipotesi di una rendita di esistenza universale ed eguale per tutti, come dicevo, l’idea che lo Stato sia “povero” costituisce un inganno storico. Si tratta di un esempio di quelli che, già nel XIX secolo, Amilcare Puviani chiamava “occultamenti di ricchezza”.
Già nel 1896, infatti, Antonio Labriola scriveva che, con l’evoluzione storica, lo Stato “è dovuto divenire una potenza economica”, in particolare “nella diretta proprietà del demanio”, oltre che “nella razzia, nella preda, nell’imposizione bellica” . Si trattava dell’eredità dello Stato patrimoniale, di quelli che già per A. Smith erano i beni di sua proprietà per il sostentamento del principe, oltre che per gli spostamenti delle truppe.
Oggi questo demanio è sterminato, ma, questo è il punto, non viene contabilizzato, oltretutto in ispregio al principio di “veridicità” del bilancio: strade e autostrade, porti e aeroporti, impianti energetici, beni storici e artistici, coste, acque territoriali, fiumi, laghi, risorse naturali degli enti locali, miniere, cave, armamenti, strade ferrate, l’etere, che viene dato in concessione alle emittenti televisive per scarso corrispettivo, così come le coste vengono “privatizzate” con concessioni novantanovennali per pochi denari. E poi nemmeno le corpose riserve auree (da noi 2.500 tonnellate) vengono contabilizzate.
Eppure tutti dicono che lo Stato è “povero”, che ha un immane deficit di bilancio, una voragine di debiti, che non ha di che spendere: eppure stranamente, quando la politica vuole, lo fa.
Questi beni incarnano il potere sovrano, sono gli strumenti della supremazia, quelli che fanno di uno Stato uno Stato: però lo Stato sarebbe anche “povero”. Come ciò sia possibile merita una spiegazione, perché avrà anche una spiegazione il fatto che lo Stato rivendica il monopolio monetario, ma anche un’imposizione fiscale elevatissima, pur senza averne bisogno, alla quale corrispondono servizi a volte modesti, a volte faraonici.
Vige in proposito una prassi, che se vi fosse consapevolezza verrebbe ridotta a “trucchetto contabile”: il valore di quei cespiti non è iscritto nel bilancio dello Stato! Lo Stato è ricchissimo e non lo sa, o finge di non saperlo e non vuole che si sappia. Si comporta come un miliardario che possiede otto ville, il quale vantasse la propria povertà, perché delle ville vedesse solo i… costi di manutenzione.
L’art. 2424 c.c. impone che i cespiti immobiliari siano iscritti in bilancio all’attivo, ma lo Stato non applica a sé il codice civile, è il “diritto reale” attraverso il quale istituzionalmente si pratica lo ius abutendi, e quindi non iscrive quei beni, perché non li tratta da ricchezze quali sono, ma da oneri, da un lato, e da immateriale scettro mistico, dall’altro. Ma la tendenza evolutiva dell’ordinamento giuridico va nel senso di applicare anche allo Stato i principi civilistici, sicché quei pretesti non convincono più.
In base a quale ordine di idee razionale, una società privata iscrive in bilancio il valore di un terreno, e quel valore dovrebbe volatilizzarsi, una volta che il terreno fosse espropriato da una pubblica amministrazione? Il valore d’estimo resta evidentemente lo stesso.
Se tutti i beni suddetti fossero iscritti a valore di mercato nel bilancio dello Stato, questo andrebbe immediatamente all’attivo, e cesserebbe la litania della “voragine dei conti pubblici”, che giustificherebbe l’alta tassazione, oltre al chiacchiericcio televisivo e alle stucchevoli controversie con l’Unione europea. Portando il bilancio all’attivo, quei valori diverrebbero innanzitutto provvista monetaria (vale più il contenuto del caveau di una qualunque banca centrale, o quello del Louvre? I monumenti di Roma o le riserve della Banca d’Italia?) Nemmeno le corpose riserve auree, come detto, vengono iscritte in bilancio, dato che viene attribuito loro solo un valore “psicologico” a sostegno del prestigio della sovranità statale.
A questo punto si delinea un bivio tra due scenari: uno statalista, l’altro libertario. Se da un lato valorizzare le ricchezze pubbliche può far pensare a uno Stato-monstrum, dall’altro, il valore della rendita di esistenza sarebbe talmente elevato che, in prospettiva, lo Stato cadrebbe da sé, dato che ognuno non avrebbe bisogno che di agenzie di intermediazione monetario e lo Stato non avrebbe più nulla da fare.
Saremmo di fronte a una contraddizione dialettica tra l’esercizio di un potere, distribuire denaro, e il carattere “suicida” di tale esercizio, che consentirebbe a ognuno di ignorare lo Stato per tutti gli altri servizi che lo Stato pretendesse di fornire a cittadini resi ricchi e ampiamente autosufficienti. Il tutto, si badi, senza necessità di marxianamente nazionalizzare alcun bene, dato che quei beni sono già dello Stato, anche se dissimulati.
Lo Stato verrebbe ridotto a un documento, il suo bilancio, che sarebbe un simulacro, un semplice rendiconto dell’avvenuto trasferimento di valore, e quindi di potere, alla società.
Pagare per andare in spiaggia è come pagare per vedere le gambe della moglie: si paga per usufruire di beni demaniali, quando dovremmo essere noi a essere pagati, trattandosi di beni già nostri.
Eppure si tratta di beni, di cespiti, che oggi come oggi non vengono nemmeno contabilizzati nei bilanci pubblici. Si parla infatti di un principio di “invalutabilità” dei beni demaniali, “che si spieg(herebbe), come dice la manualistica di Contabilità dello Stato, considerando l'essenza dei beni demaniali e la loro rilevata strumentalità rispetto ai fini dell'ente al quale sono affidati” . In altre parole, i beni demaniali vengono fatti afferire alla sovranità e vengono perciò sottratti al mercato e al suo giudizio. E infatti, prosegue questa manualistica, “I beni demaniali non vengono valutati, in conformità al principio che essi sono extra commercium e che lo Stato ne può disporre soltanto ricavandone le utilità di cui sono suscettibili ma non può considerarli come elementi attivi del suo patrimonio” . Dal che si ricava che la sovranità statuale, in tali casi, esprime il proprio dominio anche, e forse soprattutto, attraverso un substrato materiale oltremodo consistente -basti por mente all’art. 822 c.c.- e non solo, come solitamente si ritiene, sull’”opinione” e l’astrazione: il suo carisma è nutrito di carne, non solo di credenze.
Del resto, se una società privata per azioni iscrive in bilancio all’attivo i propri “beni immobili” (art. 2424 c.c., c. 1, 1° cpv., n. 2), e lo stesso fanno le società in mano pubblica, non si vede perché solo lo Stato e gli altri enti territoriali debbano ignorare di possedere beni immobili e fondiari oltretutto immensi e immani. Se ne ricava che il bilancio dello Stato sia un bilancio senza cespiti, l’unico noto con tale bizzarra caratteristica.
Potrebbe solo sorgere il dubbio che, in quanto beni demaniali astrattamente incommerciabili, essi siano privi di valore di mercato, e che quindi sia arduo contabilizzarli con un valore assegnato, sia pure alla “Lange” , come del resto già avviene con la liquidazione bonaria dei sinistri da parte dei periti delle società di assicurazione, o nelle perizie contabili; il dubbio però è privo di fondamento, dato che i beni hanno necessariamente un valore: se un terreno ha valore nel momento in cui è in mani private, non può cessare di possederlo a seguito di un esproprio, o della sua conseguente apprensione alla mano pubblica attraverso altra forma. Come che sia, per fugare ogni ombra, basterebbe assegnare detti beni a una public company cooperativistica nelle mani di tutti i cittadini, formalmente operante sul mercato, e quindi soggetta al citato art. 2424 c.c., di tal che i beni acquisterebbero, anche formalmente, commerciabilità, anche se ben difficilmente potrebbero darsi privati in grado di acquistarli in toto, in grande, o in buona parte. Sicché la loro destinazione più adeguata pare quella dell’uso civico condominiale, formalmente privato, ma a destinazione pubblica.
In ogni caso, la circostanza che quei beni, iscritti direttamente nel bilancio statuale o nel bilancio di una società pubblica allegata al bilancio dello Stato, e quindi parte della finanza pubblica allargata e del bilancio consolidato, non siano in concreto destinati alla vendita, non comporta la loro sottrazione teorica al mercato, e quindi l’invalutabilità, allo stesso modo in cui il bene immobile di una società privata, il cui valore sia iscritto in bilancio, non cessa di esprimere questo valore, pur quando non vi sia alcuna intenzione di cederlo, e quindi esso sia, in concreto, sottratto al “mercato” solo da questo punto di vista. In altri termini, l’essere dotato di un valore di mercato costituisce, per un bene, una nozione distinta dalla sua destinazione all’effettiva circolazione nel mercato stesso in senso materiale. Con l’ulteriore vantaggio che, iscrivendo il bene, senza cederlo, in bilancio, pubblico o privato, esso esplica la propria capacità di esprimere il proprio valore esercizio dopo esercizio, e non un’unica volta, all’atto della vendita.
Prendiamo il caso dell’Autostrada del Sole: non si tratterebbe solo di contabilizzare il colossale valore economico del bene “stradale”, ma anche e soprattutto della sua capacità di produrre e fornire un servizio economico autonomamente valutabile, che è quello di consentire il trasporto privato, un intensissimo via vai che ha un valore di proporzioni “incommensurabili”; si tratta in concreto di dotarsi di strumenti aggiornati di stima (vi sono vari istituti che fungono da precedenti ispiratori, di utilizzo di quello che chiamiamo "metodo Lange" di valutazione del bene, alla luce degli andamenti di mercato: dalle perizie automobilistiche sui danni, a quelle per le indennità di espropriazione, alle due-diligence nelle M&A tra società), che ne consentano una contabilizzazione, che forse da sola (si pensi poi al resto: anche solo spiagge, ma montagne, fiumi, laghi, acque costiere, usi civici e altro) basterebbe a portare in pareggio, e oltre, il bilancio dello Stato e a consentire di tagliar corto con la falsa polemica della bufala della “voragine del deficit”, normalmente agitata in danno delle classi deboli, e non certo dei grandi appaltatori e concessionari di opere pubbliche, solo per fare un esempio.
In ogni caso, inserire o no i beni demaniali e pubblici nelle poste attive del bilancio dello Stato è in realtà, in regime di statualità, una scelta di diritto positivo, sicché, una volta constatati i benefici dell’opzione positiva, sarebbe demenziale rinunciarvi. Ad esempio, Jacques Attali ha scritto che non esistono regole rigide e tassative per redigere un bilancio pubblico, e che l’Italia, con il suo gigantesco patrimonio monumentale e artistico, potrebbe permettersi un deficit ben superiore a quello, per fare un caso, dell’Ucraina. Ma si tratta di approccio approssimativo; perché allora, per essere più precisi, non contabilizzare direttamente quel patrimonio monumentale e artistico, invece che andare a spanne?
Del resto, un radicale e liberista, Antonio De Viti De Marco, già molti decenni fa rilevava che “Il ‘patrimonio’ dello Stato consta dei beni che lo Stato possiede, amministra e fa valere come un qualunque privato proprietario o industriale, sottostando alla comune legge giuridica, che regola per tutti i cittadini il diritto di proprietà, e alla comune legge economica, che regola la formazione del prezzo dei beni privati” : sicché, a identità di “legge giuridica” tra bene di proprietà privata e bene di proprietà pubblica non può che corrispondere identico criterio di formazione del relativo bilancio, con conseguente iscrizione in esso di tutti i cespiti posseduti.
Tutto quanto precede ci consente ora di essere più precisi, passando a delineare i contorni di una prima prospettiva concreta, per quanto ripetutamente accennata. Se il mondo è originariamente di tutti, e non di nessuno, è escluso, come si è visto, che atti unilaterali di apprensione possano sottrarre beni alla comunione, se non nei limiti dell’uso e della disponibilità di ciascuno ad acconsentire a che tale uso avvenga: la comunione è sempre vigente, in assenza di atti espliciti di alienazione delle quote. Ne deriva che ognuno ha diritto a vedersi riconosciuto da parte dei singoli “proprietari” (che sarebbero solo degli usufruttuari-concessionari) un canone, per dir così, di locazione con riferimento alla propria quota di mondo, o meglio, di affitto , trattandosi di concessione di un’attività imprenditoriale, in senso lato di usufrutto di impresa. Ovvero ancora, per esprimerci in termini tecnico-economici, di una rendita per la proprietà comune della terra data appunto in uso al singolo titolare di diritto reale parziario.
La necessità di una rendita di esistenza in forma monetaria si propone solo in un contesto produttivistico, nel quale vi siano beni di consumo da acquistare, sicché la produzione di ricchezze ulteriori rispetto a quelle naturali finisca con l’attribuire un senso a quella dotazione originaria, che può così essere spesa nel mercato particolare di quei beni di consumo. In caso contrario, data la vastità delle risorse naturali a disposizione, non v’è nemmeno bisogno di moneta per acquisire ciò che la natura offre direttamente, e che può costituire oggetto di apprensione individuale senza alcuna mediazione altrui, o per trasformare la natura, da soli, o in unione con altri.
Ora, prendendo comunque le mosse dall’intuizione della rendita di esistenza correlato al valore della quota di nuda proprietà della Terra spettante a ciascun singolo individuo diviene indispensabile comprendere a quanto effettivamente ammonti questa quota, per capire se essa rappresenti davvero per ognuno una fonte di reddito sufficiente per sopravvivere e per vivere almeno dignitosamente; e per far ciò occorre, evidentemente, comprendere a quanto ammonti il valore complessivo della produzione mondiale, momento dopo momento, della cui “impresa” ognuno sarebbe usufruttuario in comunione. Orbene, secondo una stima del WWF Internazionale pubblicata a pagina 2 del “Manifesto” del 25 ottobre 2006, , competerebbero a ciascun singolo individuo la bellezza di 2,2 “ettari globali” per individuo abitante del pianeta, il che davvero non sembra giustificare l’attuale stato di miseria, nel quale versano oggi molti esseri umani nel mondo, dato che lo slogan del giorno potrebbe essere ormai, nemmeno più “tutti proprietari”, ma addirittura “tutti latifondisti”.
Stabilite le premesse teoriche, il problema che si pone al movimento libertario è di saper dare, almeno in una logica di second best -nella prospettiva del free-coinage integrale fondato sulla provvista monetaria delle risorse naturali a tutti comuni-, una praticabilità “non statalista”, non “da Stato mondiale”, a tale procedimento (guardando cioè già oltre la fase della transizione), per non incorrere nelle note secche della tassazione e dello Stato sociale e dei suoi istituti discrezionali, o meglio arbitrari, di distribuzione del reddito.
Si potrebbero allora immaginare agenzie in concorrenza, anche con banche dati comuni (misura antitrust, a dispetto delle apparenze) continuamente aggiornate, le quali procedano ai conteggi, confrontabili in modo da verificarne l’attendibilità; e garantiscano la riscossione e la distribuzione degli importi, sicché il non contribuire andrebbe in danno quantomeno della reputazione (Nozick parlava di un distintivo da portare all’occhiello a riprova del versamento effettuato); per quanto non sia da escludere l’ipotesi della riscossione coattiva su azione diretta degli interessati, una volta che quella corresponsione sia concepita come vero e proprio diritto di tutti.
Al di là delle soluzioni pratiche, quel che conta è che un “proprietario” che non versi la propria quota di “rendita” ai “non proprietari” sia considerato un possessore non “convalidato”, non avendo acquistato dal prossimo l’astensione di questi dall’uso della forza: ma solo di fatto, fondato cioè solo sulla sua capacità di difendere con la forza il proprio possesso, e quindi esposto alla reciprocità e alla ritorsione, oltre che al danno alla reputazione e alla considerazione, e quindi passibile per ciò solo di ostracismo e boicottaggio da parte di altri individui.
In altri termini, ciascun aspirante possessore può anche operare una valutazione di convenienza, se pagare la quota o rinserrarsi nel bene posseduto, assoldando magari armigeri a tutela di questo; ma, in tale ipotesi, si esporrebbe al giudizio degli altri, assumendosene la responsabilità. Si noti, per altro verso, che l’istituto da noi proposto, nonostante le apparenze, non solo non costituisce imposta, ma è semmai il suo esatto contrario; dato che una “imposizione”, un “diritto di albinaggio”, proviene da chi eserciti il controllo individuale del territorio ed esprime il suo dominio su chi non lo controlla; mentre nel nostro caso si tratta di un compenso dovuto proprio da chi pretenda un controllo sul territorio, a favore di chi non lo controlli, come compensazione per l’astensione da un impedimento da parte di costui. L’istituto è quindi civilistico e non tributaristico, cioè non pubblicistico: c’è una corrispettività volontaria che manca nell’imposizione.
Nell’immediato, ripetiamo, la nostra proposta si fonda sulla disponibilità di immense riserve di beni cosiddetti demaniali, o comunque delle risorse naturali di proprietà pubblica, che fungono da corposa provvista monetaria, tanto da subito pubblica, quanto in prospettiva privata e sociale.
Ma perché, anche nell’immediato, e non solo nei discorsi un po’ utopici di prospettiva, la nostra proposta non è “statalista”, come qualcuno ci ha rimproverato? Per i seguenti motivi, in parte già accennati.
a) Innanzitutto, corrispondere a ciascuno direttamente una corposa rendita periodica, comporterebbe ipso facto lo smantellamento dell’attuale stato sociale, autoritario, selettivo, discriminatorio, e verrebbero spazzati via tutti i cosiddetti “diritti sociali”, che sono settoriali e non sono universalizzabili (diritto al lavoro, diritto alla salute, diritto allo studio, diritto alla casa, etc.), e che, come ha mostrato da ultimo Guido Corso, entrano in patente contraddizione con i diritti fondamentali di libertà;
b) In secondo luogo, non solo la nostra proposta non comporta imposizione fiscale, ma anzi la ridurrebbe e, in prospettiva, la estinguerebbe, in quanto non più necessaria;
c) Infine, dai punti che precedono, deriverebbe la devoluzione al mercato e alla comunità di tutte le funzioni di servizio pubblico, ma in un mercato costruito, si badi, su basi egualitarie, dato che la rendita di esistenza sarebbe eguale per tutti, ferma restando la possibilità di incrementi consensuali ulteriori.
Si tratta, in definitiva, di una proposta democratica e libertaria, nella direzione tanto della certezza del diritto, quanto del deperimento del potere, quanto della democrazia, se è vero che il mercato egualitario decentrato è, per quanto se ne sa, il sistema più democratico tra quelli conosciuti.

4. La realizzazione di mercato dei beni pubblici.

Una delle giustificazioni dello Stato contemporaneo è che lo stesso sarebbe indispensabile per la realizzazione dei beni pubblici, dato il presunto fallimento del mercato in questo campo: the public good argument for the state. Il concetto di bene pubblico è così dilatato, ormai, che tutto diviene argomento di legittimazione dello Stato e del suo inarrestabile intervento. Per Nozick, ad esempio, che pure è fautore di uno Stato “minimo”, sarebbero beni pubblici indivisibili la giustizia e la protezione dei diritti di proprietà, ma l’argomento era già stato pre-confutato da Murray Rothbard in “Man, Economy and State” ove si dimostrava il carattere divisibile del servizio di difesa e protezione.
Anche tra gli anarchici classici ci sono state divisioni sul punto. Errico Malatesta e Merlino, ad esempio, discussero su come fosse possibile, in anarchia, realizzare una strada, bene indivisibile e di “monopolio naturale” riuscendo a rimanere in assenza di istituzioni coercitive. Secondo Merlino ci si sarebbe dovuti attenere al principio maggioritario e le minoranze avrebbero dovuto essere costrette in qualche modo ad accettare le decisioni della maggioranza, pena il caos. Secondo Malatesta, invece, è pur vero che le maggioranze avrebbero avuto la meglio, ma a ciò si sarebbe dovuto addivenire con la persuasione e con il consenso, con l’abitudine spontanea ad accettare, in società, le statuizioni dei più.
A noi pare che entrambe tali posizioni sottovalutino il ruolo della possibile iniziativa imprenditoriale. Immaginiamo infatti che un soggetto eserciti la propria alertness (Kirzner) e individui una domanda latente di beni collettivi (Olson). Egli potrebbe predisporre un progetto e farsi elicitatore, superando il dilemma del prigioniero, di una gara d’asta tra favorevoli e contrari a una data opera pubblica. Si tratterebbe di una sorta di project financing democratico e di mercato: immaginiamo infatti che qualcuno si faccia promotore tra i favorevoli di una raccolta di fondi per finanziare l’opera, mentre altri si faccia promotore tra i contrari di altrettanto, per compensare l’imprenditore, inducendolo a non realizzare l’opera.
Se i contributi dei favorevoli saranno superiori, e sufficienti a garantirgli un margine di utile, l’imprenditore restituirà ai contrari i proventi della loro colletta e realizzare l’intervento. Se saranno superiori i contributi dei contrari, verranno restituiti i fondi a entrambi, tranne il surplus differenziale quale compenso dell’iniziativa, e l’opera non verrà realizzata.
Si dirà: perché ricorrere al voto monetario e non a quello ordinariamente referendario? Perché il voto monetario misura non solo la scala ordinale delle preferenze, ma anche quella cardinale, misura, come ricorda l’economista coreano Ng, anche l’intensità delle preferenze.
Ognuno potrà perciò contribuire non solo in funzione di una generica predisposizione favorevole o contraria all’opera, ma anche dell’effettivo coinvolgimento personale sulla sua realizzazione o non realizzazione.
In tal modo, il mercato si fa compiutamente democratico, oltre a consentire un’effettiva valutazione costi/benefici dell’intervento. Si dirà ancora che in tal modo i ricchi saranno avvantaggiati rispetto ai poveri, dato che potranno contribuire di più nella direzione da loro auspicata. Ma, a parte che, come rileva David Friedman, nei quartieri popolari ci sono più grosse macchine che buone scuole, non bisogna pensare che i ricchi (a parte ogni nostra considerazione sulla rendita di esistenza) saranno tutti da una parte e i poveri tutti dall’altra. Ci saranno ricchi contrari e ricchi favorevoli, poveri contrari e poveri favorevoli.
D’altra parte, non si tratterà solo di pagare direttamente di tasca propria, ma anche di far valere la propria capacità imprenditoriale nell’acquisire finanziamenti in una direzione o nell’altra.
Un ulteriore vantaggio è che, mentre nel voto referendario, sarebbero verosimilmente coinvolte solo le popolazioni direttamente interessate, soggette alla sindrome “non nel mio giardino”, con il voto finanziario potrebbero partecipare alla decisione tutti gli coloro i quali si auto-selezionassero come in qualche modo interessati o che si sentissero coinvolti nell’iniziativa, in senso vuoi favorevole, vuoi contrario.
Quale sarà, del resto, la concreta conseguenza di un simile modo di procedere? Come si è detto, l’opera sarà assoggettata a una verifica costi/benefici quale nessun’opera pubblica richiede oggi all’intervento coattivo dello Stato, che realizza interventi improntati a ragion politica e non a efficienza, tanto più occultando i costi nella fiscalità generale, e quindi dando molte volte la falsa impressione della gratuità per opere spesso inutili (si veda la Bre.Be.Mi.) e altamente costose.
Ne deriva che, in un siffatto meccanismo di mercato democratico, è impensabile che si realizzino, ad esempio, centrali nucleari (l’imprenditore dovrebbe farsi carico di costi di assicurazione incommensurabili, internalizzare per intero i costi di smaltimento delle scorie, etc., tutti costi che oggi vengono minimamente considerati nel computo del costo sociale dell’iniziativa); come la T.A.V. Torino-Lione, palesemente fuori tempo in un quadro internazionale di comunicazioni aeree, per la quale dovrebbero considerarsi i costi immani della perforazione delle montagne, oggi gravanti sul contribuente ignaro, dello smaltimento dell’amianto rinvenuto, etc.
La nostra proposta, infine, ci pare meno macchinosa di quella avanzata da David Friedman, per la quale l’imprenditore, per realizzare opere pubbliche nel mercato e superare l’eventuale frustrazione da free-riding, dovrebbe acquistare tutte le terre interessate e poi rivenderle a prezzo maggiorato, dati i superiori costi di transazione insiti in quest’ultimo tipo di proposta.
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3/5