"Il nuovo manifesto radicale", Fabio Massimo Nicosia (IV)

PARTE SECONDA
DIRITTO E POLITICA

1. Stato di diritto e “Preambolo allo Statuto” del Partito Radicale.

Come si diceva nell’introduzione, Marco Pannella nasce liberale: il partito radicale, nel quale egli costituì, con altri giovani, all’inizio degli anni ’60, la sinistra interna, nacque come “Partito Radicale dei Liberali e dei Democratici Italiani” nel 1955. La sinistra ereditò poi un partito in fase di scioglimento, e lo condusse nell’attraversata nel deserto degli anni ’60, conducendo varie battaglie, la più nota delle quali fu quella per l’introduzione dell’istituto divorzile.
Pannella ebbe però, lo si ricordava, anche una fase più libertaria, anzi “anarchica” negli anni ’70, almeno al livello delle dichiarazioni di principio.
Nella sua nota prefazione al citato libro di Andra Valcarenghi, che fu festosamente salutata da Pasolini come il manifesto del radicalismo italiano, Pannella scriveva: “Non credo al potere, e ripudio perfino la fantasia se minaccia d’occuparlo” (detto tra parantesi, Pannella faceva benissimo a diffidare della fantasia al potere, dato che Hitler e Pol Pot erano fantasiosissimi…).
E poi, in vari interventi congressuali, ai quali abbiamo assistito personalmente (in assenza di scritti, è a questi che occorre spesso far riferimento per comprendere il pensiero pannelliano), Pannella si dichiarava a favore del “deperimento del potere”, e individuava nel “diritto” lo strumento di tale processo di deperimento, da condurre “un millimetro al giorno, nella giusta direzione”.
Oggi, invece, Pannella fa più volentieri riferimento al concetto di “Stato di diritto”, e dice che i radicali conducono battaglie in suo nome e per la sua difesa, magari, opportuna precisazione, contro la “ragion di Stato”; e si noti che i documenti del Partito Radicale Transnazionale traducono la locuzione “Stato di diritto” con quella di “Rule of Law”, benché le due espressioni non siano totalmente coincidenti e sovrapponibili, perché la prima sembra più riconducibile allo Staatsrecht tedesco, che è altra cosa, ossia il diritto promanato dallo Stato, mentre la seconda, di stampo anglosassone, implica (come notò per primo Tocqueville) l’applicazione diretta della Costituzione da parte dei giudici ordinari, nonché dei principi generali del diritto, e la judicial review, ossia lo sottoposizione rigorosa di quel diritto al controllo giurisdizionale di legittimità.
Senonché, tra la fase “deperimento del potere” e quella “Stato di diritto” si colloca, nel 1980, il “Preambolo” allo Statuto del Partito Radicale, l’opera teorica, succinta, ma più ambiziosa, sin qui, del Marco Nazionale, che sembra dire cose ancora diverse, anche se in parte contraddittorie, o suscettibili di interpretazioni contrastanti.
Diciamo subito che il concetto di “Stato di diritto” ci fa venire in mente quell’efficace espressione emiliana, che suona così: “Legare il cane con le salsicce”. Lo Stato che pone quel diritto che dovrebbe legare lo Stato, ma lo Stato, preteso monopolista della produzione giuridica, può ad libitum porre nuovo diritto in sostituzione di quello che dovrebbe vincolarlo! Altri ha descritto tale situazione con la metafora della cintura di castità, di cui i politici hanno la chiave, ma quella emiliana pare più simpatica, in effetti. Come dice Pannella, la “grande utopia dello Stato di diritto”: la legge (le salsicce) che dovrebbe governare gli uomini (il cane), ma sono gli uomini a governare la legge, sicché il cane si mangia agevolmente le salsicce: grande utopia, ma più utopistica dello stesso anarchismo, a meno di non avvelenare le salsicce, ma in tal caso non avremmo più neanche il cane…
Ma, si diceva, i radicali fondano la politica del rispetto dello Stato di diritto sul Preambolo del loro statuto. In realtà tale testo appare più complesso, e non risulta sia stato mai studiato fino ad ora dal punto di vista della dottrina giuridica, sicché ci compiacciamo di apprestarci a farlo noi.
Può leggersi dunque in questo testo che il partito “proclama il diritto e la legge, diritto e legge anche politici del Partito Radicale, proclama nel loro rispetto la fonte insuperabile di legittimità delle istituzioni, proclama il dovere alla disobbedienza, alla non-collaborazione, alla obiezione di coscienza, alle supreme forme di lotta nonviolenta per la difesa, con la vita, della vita, del diritto, della legge”.
Il partito, poi, “Richiama se stesso, ed ogni persona che voglia sperare nella vita e nella pace, nella giustizia e nella libertà, allo stretto rispetto, all'attiva difesa di due leggi fondamentali quali: La Dichiarazione dei Diritti dell'Uomo (auspicando che l'intitolazione venga mutata in "Diritti della Persona") e la Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo nonché delle Costituzioni degli Stati che rispettino i principi contenuti nelle due carte; al rifiuto dell'obbedienza e del riconoscimento di legittimità, invece, per chiunque le violi, chiunque non le applichi, chiunque le riduca a verbose dichiarazioni meramente ordinatorie, cioè a non-leggi”.
Notiamo, anzitutto, che Pannella intelligentemente non ha parlato di “Stato”, ma di “istituzioni”. Lo Stato è solo una delle istituzioni che deve rispettare il “proprio” diritto per essere “legittima”.
Emerge qui una concezione non necessariamente statalistica, ma istituzionalistica, nel senso di Santi Romano, del diritto. Ma se si vuole essere coerentemente non statalisti e non formalisti nella concezione del diritto, bisogna occorre far riferimento anche al diritto consuetudinario, alle convenzioni tacite percepite come più o meno vincolanti, al diritto delle istituzioni spontanee, al diritto delle “pretese” di Bruno Leoni, al diritto dei contraenti, al diritto evoluzionistico, al diritto di formazione individuale e comunitaria, etc.
Ora, quid iuris di tale “diritto” per il “Preambolo” pannelliano? A rigore, un radicale dovrebbe disobbedire, non collaborare, ricorrere alle supreme forme di lotta nonviolenta per il rispetto di qualunque norma giuridica, da chiunque posta in essere? E a che scopo?
Abbiamo assistito a radicali locali prendere un po’ troppo alla lettera la lezione pannelliana, e digiunare per il rispetto, da parte del comune, di regolamenti locali insignificanti, magari giustamente disapplicati dall’istituzione locale, quando sappiamo che la sociologia del diritto ci insegna che esiste una quantità di norme inutili e dannose che per fortuna non sono applicate (si pensi a certi demenziali limiti di velocità, magari residuo di lavori antichi sulle carreggiate). E allora dovremmo scomodare le supreme forme di lotta nonviolenta per fare applicare tutta questa inutilità? Dovremmo digiunare perché la mafia (istituzione nel senso di Santi Romano, come ha dimostrato uno studio di Giovanni Fiandaca) rispetti il suo codice d’onore? Se chi scrive stilasse una “G.U. di Fabio Massimo Nicosia”, contenente i nostri criteri di azione, probabilmente quel simpatico radicale locale, che conosciamo personalmente nel suo impeto battagliero, digiunerebbe perché noi li rispettassimo, ma a lui che gliene cale? Noi in passato avevamo affrontato il problema nel saggio “L’anarco-capitalismo come ordinamento giuridico”, nel quale ci eravamo chiesti quale fosse il rapporto tra compagnia di protezione e cittadino che non ne facesse parte, concludendo che questi fosse legittimato a invocare il rispetto delle procedure di essa una volta che questi venisse in contatto con la stessa, subendone la sanzione, diversamente vi sarebbe estraneità tra i due soggetti. E in effetti lo stesso vale anche nel rapporto con lo Stato, secondo la dottrina liberale, se è vero che, come ha riconosciuto persino Costantino Mortati (quindi originariamente un non liberale), una cosa è il cittadino, una cosa è lo Stato. E allora dovremmo forse digiunare perché gli Stati che prevedono la pena di morte la applichino indefessamente, pena la loro illegittimità? In effetti, sembra talora che in tal modo i radicali non abbiano un contenuto di proposte autonomo da avanzare, ma si rimettano al diritto vigente di cui chiedono l’applicazione. Naturalmente non è così, essi chiedono l’abolizione internazionale della pena di morte, l’abolizione dell’ergastolo, l’instaurazione di un regime anti-proibizionistico sulle droghe, da ultimo l’inserzione del principio del diritto di conoscenza nella Carta O.N.U.: ma sulla base di che? Non certo sulla base del diritto vigente, che non prevede nulla di tutto ciò, ad esempio nessuna norma di diritto vigente impone il ricorso all’amnistia, che è scelta opportuna alla luce delle statuizioni della C.E.D.U. ma non necessitata (qualcuno, ad esempio l’immarcescibile Marco Travaglio, chiede la costruzione di nuove carceri). Evidentemente, essi hanno principi ulteriori rispetto a quelli della mera invocazione del diritto vigente, ma quali sono?
Una risposta, però incompleta, viene dalla seconda parte del “Preambolo”.
Con la seconda parte i radicali fanno proprio un contenuto positivo, quello dei diritti fondamentali delle Carte O.N.U. e della Convenzione Europea, nonché delle diverse costituzioni, tutte espressioni, direbbe Bobbio, di diritto naturale positivizzato, ovvero, come dice Pannella, di diritto naturale storicamente acquisito come diritto positivo. E’ certo moltissimo, ma non abbastanza a supportare le diverse iniziative radicali. Ad esempio, la carta O.N.U. non esclude la pena di morte e men che meno l’ergastolo, né parla di anti-proibizionismo o di altro.
Più pregnante, a questo punto, si rivela invece la terza parte del “Preambolo”. Essa suona così: Il partito “Dichiara di conferire all'imperativo del "non uccidere" valore di legge storicamente assoluta, senza eccezioni, nemmeno quella della legittima difesa”.
Di primo acchito, la prescrizione appare imbarazzante, anche per le contraddizioni nelle quali i radicali sono incorsi in occasione delle due guerre del Golfo. Tuttavia Pannella ha spiegato abbastanza persuasivamente che il “non uccidere” non implica il “non difendersi”. Ad esempio, diciamo noi, si può sparare alle gambe di un aggressore, cercando di non ucciderlo per quanto possibile, e sin qui sta bene.
Quel che appare più interessante è però la concezione generale del diritto che si può ricavare da tale “radicale” asserzione. Com’è noto, in tutte le dottrine classiche del diritto (Thon, Austin, fino a Kelsen e anche a Ross e ai realisti), la sanzione è supportata dalla forza della coazione, sicché fondare il diritto sulla nonviolenza è certamente un tentativo forte, che andrebbe approfondito…
Si tratta certo di imperativo “cristiano”, ma anche buddhista, e in genere riconducibile alle religioni orientali, ma anche ebraico, a dispetto delle apparenze più superficiali, basti pensare al classico del grande rabbino dell’ottocento Elia Benamozegh, “Morale ebraica e morale cristiana”.
Ma si tratta anche di un’etica giuridica libertaria: il libertarismo, come noi lo intendiamo, si fonda sull’iniziativa di un soggetto, il “legislatore originario”, che imponendo rinuncia, che costringe l’altro alla cooperazione, dando vita al bene pubblico indivisibile libertà, nel quale ognuno sia in grado di perseguire le proprie preferenze in un quadro giuridico comune costituito da una meta-norma che consenta il dispiegarsi dei diversi ordinamenti particolari co-possibili. In questo senso, la nonviolenza è laica, perché non fa proprio alcun contenuto morale prestabilito, ma è compatibile con tutti gli orientamenti morali configurabili, purché ognuno di essi non pretenda di imporre agli altri il proprio quadro di riferimento. E’ quanto avvenne nell’America delle origini, quando, come ricordò Ruffini, le diverse sette “teocratiche” compresero che non era possibile imporre alle altre la propria teocrazia, e ognuna si ritenne libera di costituire la propria (si veda in proposito il commovente film “Nel nome del Signore”, ove si vedono quaccheri e battisti ridere gli uni degli altri, ma rispettando la reciproca autonomia), e quanto forse si arriverà a ottenere attraverso i pur tumultuosi processi migratori in corso in nome di un talora malinteso “multiculturalismo”. Ma su questo necessariamente torneremo.
Resta il punctum dolens dell’invocazione della nonviolenza a sostegno di un diritto, quello dello Stato, fondato, come si è visto, sulla forza, anzi, sulla rivendicazione del relativo monopolio, il che è anche peggio. Sicché, per uscire dall’empasse, occorre coniugare e far fare la pace ai due Pannella: chiedere sì, se del caso, che lo Stato rispetti il suo proprio diritto, ma solo a condizione che ciò sia funzionale al suo deperimento e al deperimento di ogni potere. Diversamente si tratterebbe di un’inutile fatica di Sisifo.

2. La partecipazione democratica (second best).

Com’è noto, il movimento radicale, in tutti i suoi ormai lunghi anni di storia, ha sovente incentrato la propria iniziativa politica sulla partecipazione popolare, mostrando una singolare fiducia nel coinvolgimento dei cittadini nella decisione politica. In particolare, attraverso l’attivazione dell’istituto del referendum.
Diciamo singolare, con riferimento alle prevalenti, da noi, culture politiche. E’ conosciuta la resistenza di Togliatti all’istituto referendario in sede di costituente, come è nota l’incredibilmente restrittiva giurisprudenza della Corte Costituzionale in questa materia, che ha dilatato enormemente i requisiti di ammissibilità del referendum abrogativo, rispetto a quanto letteralmente previsto dall’art. 75 della Costituzione.
Il principio che inconsapevolmente mosso i radicali, che parrebbe ovvio, ma che tanti ostacoli trova da noi, è che il popolo non può possedere un potere legislativo inferiore rispetto a quello dei suoi rappresentanti.
Ma, se così è, logica imporrebbe che ci si battesse anche per l’introduzione del referendum propositivo, accanto a quello abrogativo, anche considerando che una legge nuova è sempre anche abrogativa del quadro giuridico precedente, così come una norma abrogativa è anche sempre innovativa rispetto a detto quadro giuridico.
In casa radicale si sono invece talora levate voci contrarie al referendum propositivo, in nome, si immagina, di una funzione meramente di “controllo” del voto popolare, ma, come detto, tale posizione non ci pare congruente con l’aureo principio enunciato.
Se dunque da noi siamo cantottant’anni indietro rispetto alla situazione descritta da Tocqueville nella “Democrazia in America”, la lotta per la democrazia diretta (soggetta spesso a ironie sciocche del tipo “non siamo in Svizzera”… magari!) deve piuttosto proseguire ed estendersi.
Ad esempio proponendo l’elezione diretta, con previsione di recall, dei magistrati, o almeno dei capi-ufficio, dei procuratori della repubblica, i quali si presentino alle elezioni con un proprio programma vincolante, in grado di superare l’ipocrisia della fasulla obbligatorietà dell’azione penale; estendendo, seguendo l’insegnamento del “municipalismo” di Camillo Berneri, la democrazia a livello locale, concentrando le funzioni amministrative nei comuni (giustizia compresa, tranne quella civile, da devolversi sempre di più ad arbitrati privati, data l’inutile macchinosità dell’odierna costosa procedura civile).
Emerge a questo punto la questione del federalismo e della secessione.
Pannella si è di recente riconfermato contrario alle secessioni territoriali, intervenendo a proposito dei referenda scozzese e catalano, invocando il superamento dell’istituzione “Stato nazionale” in nome del federalismo europeo di stampo ventoteniano.
Che le secessioni territoriali (altro discorso andrebbe condotto con riferimento alle secessioni individuali) non siano eo ipso libertarie lo sosteniamo da tempo, anche in polemica con anarco-capitalisti tardo-rothbardiani fautori di siffatte secessioni. Tuttavia, occorre considerare che, se è auspicabile un federalismo verso l’alto di stampo neo-kantiano, altrettanto auspicabile, si direbbe, è il federalismo verso il basso, con riferimento quantomeno alle funzioni amministrative che possano essere esercitate direttamente dai cittadini o da loro “magistrati” revocabili, per utilizzare la dizione dei classici.
Va da sé, peraltro, che ogni secessione di questo tipo deve comportare l’inserzione in un più ampio ordinamento internazionale, in una comune “corte di giustizia”, che garantisca i diritti umani fondamentali, la libertà di concorrenza, di libera circolazione, etc. Certo, vanno invece osteggiate secessioni che non intendano rispettare tali diritti, o che siano rivolte all’introduzione di dazi o simili ostacoli illiberali, barriere che il mercato non può e non vuole riconoscere.
Ci si può chiedere, a questo punto, quale strategia politica debbano seguire, in regime democratico-liberale, i radicali, per perseguire i propri obiettivi.
Mentre gli anarchici classici, in nome del rifiuto della delega e invocando i sacri principi di Saint Imier, reclinano di essere coinvolti in alcun modo nelle competizioni elettorali o altrimenti democratiche (pur essendo coinvolti giornalmente, in una quantità di atti quotidiani compromettenti, in un mondo che detestano), i radicali sono sempre stati laici rispetto al voto e al non voto.
Così cioè come non rifiutano per principio le elezioni, nemmeno si sentono obbligati a parteciparvi, se non sulla base di valutazioni caso per caso, e questo è un criterio sano.
Si tratta tuttavia di approfondire quale debba essere l’atteggiamento “politico-elettorale” dei radicali, tanto ove si presentino, quanto ove non si presentino.
A nostro avviso, i radicali devono mantenere la propria collocazione storica, come descritta in introduzione, ossia all’estrema sinistra dello schieramento istituzionale. Del resto, lo stesso miglior Rothbard diceva che storicamente, a partire dalla rivoluzione francese, la destra è rappresentata dagli statalisti nostalgici dell’ancien régime, mentre la sinistra è rappresentata dai liberali, dai radicali, dai libertari, costituendo invece il socialismo, con il suo miscuglio di statalismo e di antistatalismo, un confuso movimento centrista.
Ciò non significa abbandonare il principio della trans-partiticità, che consente di colloquiare con esponenti di ogni estrazione politica sulla base dell’adesione alle concrete singole battaglie, ma essere perfettamente consapevoli della propria identità.

Ciò comporta che, ove si affermi un sistema politico latamente “all’americana”, i radicali devono costituire l’ala libertaria dello schieramento progressista, in mancanza di che, allora, tanto vale, battersi per l’affermazione di un sistema perfettamente proporzionale, dato che, del resto, è proprio sotto il sistema proporzionale che i radicali hanno dato il meglio di sé nelle lotte parlamentari.
In un sistema o nell’altro, comunque, la presenza parlamentare può essere molto utile, non tanto come generico diritto di “tribuna”, quanto per esercitare sindacato ispettivo, per consentire una frequente attività di visita dei penitenziari, per controllare gli intinera legislativi nelle commissioni, per battagliare per la discussione dei progetti di legge di iniziativa popolare, spesso insabbiati nelle stesse, etc.
In mancanza di una presenza parlamentare, i radicali hanno, in tempi recenti, incentrato la propria iniziativa nella proposizione di azioni giurisdizionali, le più interessanti delle quali sono quelle adite a livello internazionale. Anche questo profilo dell’azione radicale va salutato positivamente. Pannella sembra finalmente essersi convinto, almeno in parte, dell’inanità dell’iniziativa di tipo penalistico, a favore di un approccio più di common law, invocando, a livello di giudici ordinari, statuizioni in grado di costituire precedenti vincolanti per lo stesso legislatore.
Ad esempio, negli Stati Uniti, la legalizzazione dell’aborto è stata disposta in conseguenza di una pronuncia della Corte Suprema, nel noto caso del 1973 Roe vs. Wade, caso pilota per tutto il mondo, non in conseguenza di un atto del legislatore. Come diceva Bruno Leoni, del resto, è proprio la legislazione, con il suo carattere alluvionale, confusionario e pasticcione, a costituire fonte di incertezza del diritto, mentre il diritto giurisprudenziale consuetudinario, fondato sulla vincolatività del precedente, la cui ratio va ravvisata nel rispetto della parità di trattamento nel tempo, è più in grado di consentire al cittadino stabilità nell’elaborazione delle proprie aspettative.




3. I diritti civili

A) Manicomi, carceri, diritto penale, polizia.

I radicali si sono a suo tempo resi protagonisti di una fondamentale battaglia contro i vecchi manicomi, legati a una visione di segregazione della malattia mentale o presunta tale (non ignoriamo gl’insegnamenti dell’anti-psichiatria di un Thomas Szàsz), sostituiti da una rete di comunità di riabilitazione, di case-famiglia, etc., e si è trattato sicuramente di un grande passo in avanti.
Noi possiamo parlare a ragion veduta di tale fenomeno, avendo trascorso, oltre a quindici giorni a San Vittore, svariati periodi nei reparti psichiatrici degli ospedali, quasi due anni in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario (purtroppo gli O.P.G. non sono stati toccati dalla riforma, anche se oggi si parla di un’abolizione sempre rinviata), e poi, finalmente, quattro anni in comunità psichiatrica.
Dalla nostra esperienza, susseguente a T.S.O. sicuramente illegittimi nella forma (mentre nella sostanza non spetta a noi in questa sede giudicare della nostra “follia”) ricaviamo che i reparti psichiatrici sono ancora degli ambienti angusti, in cui il fumo è contingentato e dove vengono stilate cartelle cliniche senza alcun contraddittorio e controllo, che non vengono negati nemmeno a un appaltatore di opere pubbliche, pur trattandosi di relazione certo meno delicata. Quanto agli O.P.G., non possiamo che rilevarne il carattere esclusivamente afflittivo, privi come sono di qualunque valenza riabilitativa e di cura. Si tratta in pratica di vere e proprie carceri, e delle peggiori (salvo forse, a quanto dicono, quello di Castiglion delle Stiviere), oltretutto soggette al principio “sai quando entri, ma non sai quando si esce”. Si tratta del cosiddetto ergastolo bianco, per cui, come abbiamo constatato direttamente, anche soggetti autori di “reati” di lieve entità, subivano proroghe annuali continue di internamento, sulla base di giudizi di “pericolosità sociale” persistente, del tutto approssimativi.
Quanto infine alla comunità, la nostra esperienza è tutto sommato positiva. Il degente è effettivamente seguito, curato, pernotta in dignitosissime camere singole o doppie, può tenere computer con internet e telefono cellulare, può uscire anche da solo per andare al bar, in biblioteca, etc. Certo, la tua permanenza è sempre assoggettata al giudizio discrezionale degli psichiatri, i quali possono anche trovare pretesti discutibili per prolungarla, nondimeno il trattamento pare rispettoso dei diritti umani fondamentali e gli operatori, almeno nel nostro caso, si sono rivelati motivati e cordiali.
Siffatte comunità appaiono un possibile modello per il “carcere” del futuro. I radicali, come è notissimo, stanno conducendo da anni una forte battaglia per il ripristino della “legalità” carceraria, contro le inumane condizioni dei detenuti e contro il sovraffollamento, ottenendo importanti risultati, come la sentenza “Torreggiani” della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. A quest’ultimo proposito non possiamo che confermare. Nella nostra permanenza a San Vittore eravamo in quattro in pochi metri quadrati e le celle erano praticamente sempre chiuse.
Tuttavia, preferiremmo che i radicali estendessero sistematicamente al carcere l’approccio “abolizionista” che hanno sempre mantenuto per i manicomi, trattandosi in entrambi i casi di istituzioni totali irriformabili, essendo ormai storicamente sorpassato e agli sgoccioli il modello “panopticon” due secoli e mezzo fa concepito da Jeremy Bentham.
In verità, dal mondo radicale non mancano e non sono mancate voci abolizioniste. Ci fa piacere ricordare l’allora consigliere regionale lombardo anti-proibizionista Giorgio Inzani, che ormai venti anni fa organizzò, replicandolo, un convegno appunto abolizionista, al quale noi stessi abbiamo partecipato con una nostra relazione.
Ma lo stesso Pannella non ha mancato a suo tempo di prendere posizione su tale argomento. Abbiamo di recente riascoltato un filo diretto di quasi quarant’anni fa (con Pannella, vista la carenza di scritti, è agli interventi congressuali, ai fili diretti, ai dialoghi domenicali che bisogna sovente fare riferimento), nel quale prendeva chiaramente posizione contro l’istituzione carceraria. Tuttavia il tema è stato sostituito da un approccio “riformistico” che suona a volte troppo asfittico e inadeguato.
Invero, il carcere è inadeguato innanzitutto perché è il diritto penale a essere inadeguato, sia sul piano oggettivo, sia sul piano soggettivo.
a) Sul piano oggettivo, non è adeguatamente giustificato che cosa debba costituire “reato”. In base all’art. 40 del codice penale, dovrebbe sempre essere raffigurarsi un evento dannoso o pericoloso, ma noi siamo in presenza di una grande quantità di fattispecie di reato nelle quali non si comprende in che cosa consista il danno o il pericolo (ammesso che un atto di pericolo, che non cagioni alcun danno effettivo, possa essere sanzionato): si tratta in molti casi di victimless crymes, e una volta che si considerino omicidio, lesioni e reati di violenza, che ne resta?
b) Sul piano soggettivo, quel che non funziona è la pretesa del diritto penale di sindacare, attraverso il giudizio sul dolo, sulla colpa, etc., il foro interno delle persone.
Si noti che, storicamente, tale requisito di responsabilità e colpevolezza intendeva rappresentare un progresso, nel senso che, in mancanza di mens rea, l’imputato non avrebbe potuto essere considerato colpevole e condannato. In realtà c’è da chiedersi oggi chi sia quell’uomo in grado di sindacare la mente altrui, la mens rea altrui, se non un dio!
A ben vedere, dovremmo invece, in presenza di effettivo danno, ricondurre l’istituto del reato a quello di mero illecito civile, a prescindere da ogni valutazione di foro interno, sulla base del semplice nesso tra condotta come causa e danno come effetto, con conseguente semplice risarcimento del danno. Il che appunto suppone che danno davvero vi sia. Come abbiamo più volte notato, inoltre, non può non sottolinearsi il carattere intrinsecamente discriminatorio del diritto penale, fondato sull’azione officiale, mentre nel caso dell’illecito civile sarebbe il danneggiato ad auto-selezionarsi e a pretendere indennizzo o risarcimento.
Del resto, nel diritto penale si pretende, come rilevò Alf Ross, che il cittadino introietti il significato di riprovazione morale della pena. In altri termini, si tratta di un settore del diritto non laico, come dimostrò nel medioevo il passaggio dal modello “Rotari” al modello “Liutprando”.
Sia consentito un’ulteriore ordine di considerazioni.
a) Recenti pronunce (caso Cucchi, caso Commissione “grandi rischi” dell’Aquila, caso Saviano, caso “eternit”) dimostrano come il riporre fiducia nel giudizio penale come strumento di soluzione di gravi problemi sociali non ha fondamento, dato il vincolo subito dallo stesso al principio di “verità processuale”, che non ha nulla a che vedere con la verità reale, anche per l’incidenza, oltre che degli elementi probatori, di quelli attinenti all’elemento soggettivo del reato;
b) Per contro, da parte di molti si insiste nell’utilizzare il processo penale, incentivando il protagonismo politico di molti giudici, proprio per acquisire informazioni “reali” su importanti vicende, altrimenti inaccessibili in quanto appartenenti agli arcana imperii. Si pensi alla denuncia rivolta contro i contraenti del “Patto del Nazareno”, presentata da esponenti del “Movimento 5 Stelle”, al dichiarato scopo di conoscere il contenuto di quel patto. Ovvero si pensi al processo sulla questione della “compravendita” di voti parlamentari per far cadere l’allora governo “Prodi”. Tutte vicende di difficile configurazione penalistica, ma che approfittano dell’inadeguatezza o totale assenza di altri strumenti di controllo forniti dall’ordinamento, caricando il processo penale di elementi politico-sociologici del tutto impropri.
Un cenno, infine, alla questione della brutalità della polizia. Anche a tale proposito possiamo vantare esperienza personale, ma non vogliamo farcene condizionare. Preferiamo restare su considerazioni di carattere generale.
La funzione istituzionale delle forze di polizia dovrebbe essere, salvo errore, il portare la legge a esecuzione. Ma che cos’è la legge in uno Stato di diritto moderno? Per rispondere, occorre riferirsi alla cosiddetta gerarchia delle fonti.
Nella gerarchia delle fonti, al primo posto vengono le dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, i trattati internazionali, le costituzioni, e poi le leggi, e via via le sentenze, i provvedimenti amministrativi, etc. Dovremmo allora arguire che, quando vediamo plotoni di poliziotti per le strade muniti di manganelli, manette, caschi integrali, mitragliette e scudi di protezione, essi stiano in tal modo facendo rispettare… dichiarazioni dei diritti dell’uomo e del cittadino, i trattati internazionali, le costituzioni, e poi le leggi, e via via le sentenze, i provvedimenti amministrativi, etc!
Sembra un paradosso, ma dovrebbe essere così. Le forze di polizia appaiono oggi strumenti consustanzialmente inidonei alle esigenze dello Stato di diritto correttamente intese. Esse “tutelano” un “ordine pubblico” cocnepito del tutto asfitticamente, con “sentenze passate in giudicato” di loro conio, come quella volta che, come abbiamo riscontrato in una trasmissione televisiva, vigili urbani si aggiravano tra le prostitute di strada per misurare a spanne il rispetto da parte loro del “comune senso del pudore”, valutando i centimetri delle loro gonne e gli eventuali reggicalze. Come se una non prostituta che stia semplicemente aspettando l’autobus non potesse indossare siffatte vestimenta, e come se “prostituta” fosse nozione con un senso purchessia (sul che torneremo tra non molto).

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4/5