"Antistatalisti e di sinistra", Fabio Massimo Nicosia

http://www.radicalianarchici.it/2015/06/antistatalisti-e-di-sinistra.html

Ogni tanto si discute ancora su che cosa sia di destra e che cosa sia di sinistra, e se abbia senso ancora una tale distinzione. Trattandosi di parole, il loro significato va ricostruito storicamente e nella verifica empirica dell’oggi. Salvo errore, i termini “destra” e “sinistra” nascono con la Rivoluzione Francese, per rispecchiare le collocazioni parlamentari dei diversi schieramenti. Sicché noi possiamo dire, con Murray N. Rothbard, che a destra si situavano gli statalisti dell’ancien régime, mentre a sinistra si collocavano i liberali rivoluzionari che si contrapponevano loro.










Un primo elemento salta dunque agli occhi: la sinistra moderna (prima della modernità questo linguaggio non era noto) nasce liberale e antistatalista. Quel liberalismo ha figliato via via radicali e anarchici, sicché gli uni e gli altri sono di sinistra in questo senso.

 

Tuttavia, dato che il liberalismo ha come fondamento l’idea dei pari diritti, in questo progredire a sinistra è emersa anche un’idea di eguaglianza, da coniugarsi con quella di libertà. Ciò è particolarmente evidente in quelle correnti anarchiche, che massimizzano tanto il concetto di libertà, quanto quello di eguaglianza.

 

Che cosa ha creato un cortocircuito, in questo processo di assimilazione della libertà all’eguaglianza dei diritti? Il fatto che siano sopravvenuti, all’interno delle correnti di sinistra, orientamenti volti esplicitamente a utilizzare lo strumento-Stato per realizzare quegli obiettivi di eguaglianza, per conferire loro certezza e stabilità nel tempo, quando la sfida è proprio destatalizzarli.

 

In ciò ha fatto spicco ovviamente il marxismo. Ma non ci si stancherà di ripetere che anche Marx era mosso e animato da intenti e sentimenti libertari, avendo più volte precisato che alla fase della presa del potere e della dittatura del proletariato avrebbe dovuto seguire un processo di dissoluzione dell’apparato statale come organismo autonomo rispetto alla società, e, così, sopravvenire un mondo di libero dispiegamento dei bisogni individuali, senza alcuna mediazione burocratica, almeno nel modello inizialmente concepito. Ora, Marx prevedeva ciò su base economica, mentre è più facile che ciò avvenga oggi per via giuridico-istituzionali, sotto i colpi delle contraddizioni intrinseche all'idiocrazia, che si sforza di organare i poteri per via privatistica, cercando di eludere la questione fondamentale che non è concepibile di intrattenere relazioni necessitate con organismi di diritto privato.

 

Si noti, peraltro, che i marxisti avevano ben presente la distinzione tra Stato nelle mani dell’avversario e Stato nelle mani proprie. I più lucidi tra i socialisti statalisti, infatti, non confondevano i due piani, e si opponevano a processi di estensione degli ambiti di competenza statuali offerti dai conservatori come contropartita ai ceti deboli. Ma rivendicavano solo per sé, sulla base della propria linea politica direttrice, che si presume ideologicamente “pura”, siffatto compito di organamento del sistema in nome degli interessi della classe sfruttata.

 

Convivono perciò a sinistra due pulsioni, una verso la libertà e una verso l’eguaglianza, salvo che anche la libertà presuppone almeno un’eguaglianza, quella dei diritti. Se anche si ritenesse che la Grundnorm libertaria fosse “fate quel che vi pare”, tale norma sarebbe eguale per tutti, e quindi norma di eguaglianza.

 

Se tutto ciò è sinistra, che cos’è allora “destra”? Se le distinzioni hanno un senso, e un senso devono averlo, altrimenti non godremmo di due parole distinte, dobbiamo ritenere che destra sia l’esatto opposto: ordine, disciplina, gerarchia, contrapposti al “caos” che deriverebbe dalla loro assenza o dissoluzione.

 

Qui emerge nuovamente il problema dello Stato. Perché la destra, a differenza di come pure si potrebbe concepire in astratto, non immagina il formarsi di gerarchie quali espressioni spontanee della società, come avverrebbe ad esempio con riferimento alle gerarchie fluide di un libero mercato, ma sclerotizza dette gerarchie attraverso il loro incardinamento, anche sotto il profilo delle categorie economiche, nell’apparato statale. Il modello è quello fascista, dello Stato che si incardina fino al livello del capo-condominio. La società è quindi interamente burocratizzata, dimostrandosi all’opposto tanto del principio di libertà, quanto di quello di eguaglianza.

 

Tutto ciò in teoria. Nella pratica noi vediamo che destre e sinistre sono oggi egualmente stataliste, perché le une e le altre ritengono di ottenere protezione per gli interessi che rappresentano dalla mediazione e dall’intervento dello Stato. Lo Stato è una costante camera di compensazione tra interessi, in arbitrato permanente, in sé neutrale tra i diversi interessi che riescono ad accedere alle sue leve, salvo la sua autonoma capacità di esprimerne i vari rapporti di forza. La conseguenza è che, sommandosi le pulsioni stataliste a tutela degli interessi "di destra" a quelle a tutela degli interessi  "di sinistra", si amplia la quota complessiva di intervento poliziesco, burocratico, penalistico.

 

Al di là di questo, accade però anche che lo Stato si rivela sempre più inadeguato a tale bisogna di mediazione. In realtà, il conflitto è oggi tra interessi che richiedono l’intervento dello Stato in un certo ambito, ma vogliono che receda da un altro, e viceversa. Sono poche le forze che richiedono la sua recessione in tutti i campi contemporaneamente, anche perché questa posizione rischierebbe di peccare di astrattismo e non considerazione e scelta tra gli interessi concreti.

 

I liberali-liberisti di destra, ad esempio, che chiedono che lo Stato inefficiente si ritragga dall’economia, chiedono però anche altrettanto spesso più Stato nel campo della sicurezza, dell’ordine pubblico, della pena, del carcere, salvo nelle punte radicali rivendicare l’armamento privato, di cui però non sembra cogliersi il risvolto più interessante, la messa in discussione del monopolio della forza da parte dello Stato.

D'altra parte, quando l'antistatalista di destra si approccia allo Stato, lo fa proiettando su di esso la propria concezione "proprietaria", sicché, ad esempio, lo Stato dovrebbe difendere i suoi confini dall'immigrazione, così come un proprietario ha tutto il diritto di esercitare lo ius excludendi alios.

La sinistra difende invece lo Stato del welfare e dei diritti sociali per tutti, ma balbetta quando deve spiegare dove si prendono i soldi per mantenerlo, problema che la destra ha meno, visto che è meno attaccata ai diritti sociali. Non è questa la sede per riproporre la nostra proposta di riforma al riguardo della contabilità pubblica, che attualmente occulta grande parte delle ricchezze comuni e non le esprime in bilancio, il che potrebbe consentire di superare le varie obiezioni che la sinistra non è oggi in grado di affrontare efficacemente.

Vi è poi il campo dei diritti civili. Il fatto che i diritti civili siano poco sentiti dalla politica deriva forse dal fatto che sono diritti senza spese, ma che incidono profondamente sul costume. Quindi vi è un duplice disincentivo ad occuparsene, dato che la politica non ha nulla da mangiare o guadagnare su di essi, e quindi non si vede perché dovrebbe assumersi la conseguente responsabilità di modificare radicalmente il costume, se non quando il costume si sia talmente evoluto, che non si possa fare altro che adeguarvisi.

 

Anche qui, sic stantibus rebus, si disstinguono una destra e una sinistra, in attesa che si possano fronteggiare una posizione puramente statalista, di monopolio culturale, con una puramente anti-statalista. Prendiamo il noto caso del matrimonio gay o egualitario. Alla luce delle qualificazioni esposte, ricaviamo che si tratta di proposta chiaramente di sinistra, visto che aumenta il tasso di libertà e di eguaglianza dei diritti tra gli individui, introducendo per sovrammercato elementi di “caos”, che molti di destra com’è noto non apprezzano nei costumi consolidati.

 

L’antistatalista “di destra”, inegualitario e contrario all’estensione dei “diritti”, si rivela per il fatto di sostenere che il matrimonio gay sarebbe istituto “statalista”, in quanto volto a estendere la presenza dello Stato in nuovi ambiti. Ora, reversibilità della pensione a parte, che è argomento di diritto pensionistico che non può non essere identico per tutti i cittadini, è appena il caso di notare che il matrimonio gay è solo un suggello senza spese -quindi non implicante coercizione tributaria- o con poche spese da parte dello Stato. Non più di quanto lo sia il matrimonio eterosessuale. E infatti quegli antistatalisti di destra, talora, ma non sempre, si rifugiano nell’affermazione di essere contro anche il matrimonio di Stato eterosessuale. Naturalmente non fanno nulla in tale direzione, perché il calo nel ricorso all’istituto del matrimonio è dovuto a evoluzioni sociali, che non hanno nulla a che vedere con l’irrilevante propaganda di quei pochi libertari di destra coerenti. Di certo, questi anti-statalisti non mettono la stessa foga contro il matrimonio eterosessuale, di quella che mettono contro il matrimonio omosessuale, e in questo si manifesta il loro conservatorismo culturale, oltre che il carattere strabico del loro anti-statalismo.

 

Il libertario di sinistra mette invece in discussione anche il conservatorismo culturale, perché questo procura limitazioni di libertà e costi anche tangibili per il singolo individuo, anche se l’ideale sarebbe collocare libertari tanto “di destra”, quanto “di sinistra”, in un unico meta-livello, che consentisse la libera e spontanea espressione nella società di preferenze tanto conservatrici e tradizionaliste, quanto innovatrici e di sperimentazione, ponendo le une in concorrenza con le altre; ma non siamo ancora a questo punto, dato che gli stili di vita alternativi hanno ancora parecchia strada da compiere per farsi accettare dall’abitudine.

Un altro esempio è dimostrato dall'anti-proibizionismo. Anche qui non si tratta solo di "droghe", ma di due visioni della società, una che affida la tutela della morale al diritto penale, un'altra contrapposta che l'affida al libero mercato, dato che non proibire significa consentire tutte le scelte alternative co-possibili, ma ciò ancora una volta non aggrada ai conservatori culturali, che si sentono minacciati dal "permissivismo", sicché, pure quando non invocano l'intervento dello Stato in questo ambito, non si fanno particolarmente battaglieri contro. E ciò a tacere del fatto che un antiproibizionismo di mercato sarebbe anche una forma di redistribuzione del reddito, nella misura in cui aprisse a molti la strada della coltivazione, oltre che dell'autocoltivazione, tanto per stare solo all'esempio delle droghe, che si potrebbe estendere ad altro.

Solo nella prospettiva in cui lo Stato venisse coerentemente fronteggiato in tutti i suoi aspetti da un movimento libertario a tutto campo, la dicotomia destra-sinistra potrebbe ritenersi superata in un anti-statalismo coerente, ma, come detto, non è venuto ancora il momento di ritenere matura questa prospettiva, e ciò proprio per le incorenze interne al mondo libertario.

 

Lo stesso vale per l’economia. Sfugge a molti che il più ampio e diffuso libero mercato è in realtà un’istituzione egualitaria e democratica, perché pone a disposizioni di tutti le risorse naturali iniziali per poter compete in quel libero mercato, secondo noi esteso al conio monetario. Purtroppo noi vediamo invece che oggi le parole d’ordine del libero mercato sono utilizzate da chi detiene il controllo monopolistico o quasi-monopolistico di quelle risorse, contraddicendo le proprie stesse premesse, dato che monopolio è l’opposto di mercato libero. Monopolio, si badi, non frutto della libera competizione, ma reso strutturale dal monopolio statuale sul territorio e, conseguentemente, da quelle che una volta si chiamavano “patenti regie”: concessioni, brevetti, copyright, e già il mondo delle concessioni dice tutto, perché è difficile che un grande concentrato capitalistico-finanziario non sia oggi concessionario in un qualche senso di un qualche bene o servizio pubblico.


In definitiva, non è venuto ancora il momento di definirci puramente e semplicemente “anti-statalisti”, perché non siamo ancora alla fine della storia, e ancora si fronteggiano interessi tra i quali la scelta appare ineludibile. Sicché crediamo, in conclusione, di aver sufficientemente argomentato perché noi oggi riteniamo di doverci considerare al tempo stesso “anti-statalisti” e “di sinistra”.