´La escuela de la generación del 68: análisis de un fracaso´, Mario Pirani

Llevamos un cuerto de siglo de insistente, tenaz y orgulloso-de-sí-mismo fracaso del modelo escolar surgido de la perspectiva social -entre hippy, católica y marxista- 'del 68', que, aquí, se personificó en el progresismo ibérico, especialmente refugiado en la escuela pública, con la aquiescencia y cobertura (por razones en parte diferentes) de todos los Gobiernos postTransición. El mito ucrónico de la recuperación de una pedagogía i política educativa republicanas, ciertamente modélicas en la época, y hoy obsoletas y a contrapelo de la sociedad del siglo XXI, ha impedido la necesaria (auto)crítica del pilar fundamental no sólo de la izquierda sino del racionalismo ilustrado, padre necesario de los derechos y libertades de la sociedad moderna.

Los países donde más ha calado esta doctrina progre reaccionaria se distinguen por sus lugares de cola en los ránkings más serios de calidad educativa y, no casualmente, el área latina -católica y conservadora a pesar de puntuales estallidos- sudeuropea es líder en ella. Marco Pannella ya advertía hace décadas de la nocividad del catolcomunismo...

Sigue una entrevista de ámbito italiano perfectamente parangonable a esta otra península.

Intervista a Mario Pirani, di Andrea Ragazzini e Valerio Vagnoli.

Si è svolto a Firenze il Convegno “Merito e legalità nella scuola italiana” organizzato dall’Associazione radicale “Andrea Tamburi” e da Radicali Italiani. Tra i contributi, un’intervista in audiovideo rilasciata per l’occasione a Radio Radicale da Mario Pirani, che su “La Repubblica” ha trattato spesso i problemi della scuola. Celebre il suo articolo Professori, tornate al sette in condotta, che ebbe il merito di suscitare un vivace dibattito su un tema allora tabù. Riproduciamo di seguito la trascrizione dell’intervista. [Il testo non è stato rivisto dall’autore.]


 
D: Dottor Pirani, in quale periodo e per quali motivi iniziò a interessarsi di scuola?R: Un po’ casualmente. Un insegnante mi parlò di debiti formativi, di 6 rossi e io non capivo cosa fossero. Allora pensai di indagare sulla situazione della scuola. Mi trovai di fronte a una selva di nuove normative, di nuove sigle, tra cui i Pof (piani dell’offerta formativa) e mi accorsi che queste riforme in realtà avevano creato appunto una selva oscura di norme e regolamenti. Le valutazioni erano diventate cervellotiche: chi era insufficiente in qualche materia aveva dei “debiti formativi”, ma in assenza di esami di riparazione non si capiva come li avrebbe saldati. Ho scoperto che l’universo scolastico, che tutti credevamo di conoscere, era profondamente mutato e mutato in peggio.D: Secondo lei la deriva della scuola è iniziata con il Ministero Berlinguer o ha una radice più antica?R: Io direi un po’ prima. Comincia appunto con l’abolizione degli esami di riparazione da parte del Ministro D’Onofrio, con il voto quasi unanime della Camera. Questo è il punto d’avvio della degenerazione pseudo-riformistica. Senza esami di riparazione non c’è un minimo criterio meritocratico, mentre si inventa il sistema dei debiti, che spesso diventano barzellette: la scuola, infatti, nei primi 10 giorni di settembre, organizza dei corsi brevi di recupero, in cui lo studente dovrebbe acquisire le competenze che non aveva acquisito durante tutto l’anno. Se non ci riesce, questi debiti formativi si accumulano via via, e può portarseli dietro, credo, fino alla fine del liceo. Le stesse riforme consentono a uno studente di acquisire dei “crediti formativi” al di fuori della scuola: un corso di pronto soccorso, di chitarra spagnola, di danza, di canto. Questo è il punto di avvio di una serie di riforme che hanno svuotato il ruolo degli insegnanti, togliendo loro ogni potere. Perché tutto questo? C’è stato il combinarsi di una tarda filosofia di sinistra e la filosofia cattolica, quella diciamo di Don Milani, che però riguardava le fasce più povere della popolazione, ma che è stata invece estesa a tutti, sfociando nel perdonismo totale. La “tarda filosofia di sinistra” di cui parlo è quella che rinnega le forti prese di posizione di Togliatti e Concetto Marchesi, la loro difesa di una scuola classica rigorosa, che portasse finalmente le classi popolari alla cultura, ma in una scuola che mantenesse un suo rigore e la capacità di formare una classe dirigente. Invece il tardo pseudo-marxismo, che viene dalla rivolta del ’68 contro ogni gerarchia, ha prodotto l’idea di scuola di cui sono intrise le riforme. In quest’idea io vedo due componenti principali. Una è la concezione di destra, fatta propria dalla sinistra, della scuola come azienda e non più come servizio pubblico unificante dei cittadini italiani, attraverso programmi unici e un’idea di scuola come ambiente formativo autonomo, in cui la collaborazione con la famiglia è limitata al rapporto tra docente e genitore nei momenti statuiti. Ma se la scuola è un’azienda, l’alunno è un cliente, dunque va sempre difeso. Il Dirigente scolastico è interessato ad acquisire il maggior numero di iscritti e a far quadrare il bilancio. Se l’insegnante tenta di applicare delle norme, non dico severe, ma di efficienza professionale e di cultura, ha contro i genitori-clienti e il Preside. Addirittura c’è la contestazione dei voti, c’è il ricorso al TAR in quei rari casi in cui un professore onesto si intestardisce nel mettere un brutto voto. La seconda componente è il pedagogismo. La pedagogia, che aveva una sua nobiltà ai tempi di Pestalozzi o della Montessori o anche di altri, a un certo punto è diventata appannaggio di ex sindacalisti e di professori mal riusciti, che si sono agglomerati attorno al Ministero della Pubblica Istruzione e hanno condizionato e dato corpo alle riforme. Ne sono nate cose inenarrabili. Faccio un solo esempio. Il voto, si dice, dovrebbe essere dato secondo i principi della docimologia, in modo che non corrisponda alla convinzione dell’insegnante, ma a criteri oggettivi, come fosse un test scientifico. Non basta che l’insegnante legga un compito di italiano, veda se corre, se ha una sua logica, se ci sono errori di ortografia o di sintassi; no, deve dividerlo in una quindicina di voci: tot punti alla grammatica, tot al senso, tot alla sintassi, tot al lessico, per arrivare a un punteggio complessivo. Il tempo dell’insegnante viene bruciato in queste cose. C’è chi ha fatto un confronto tra chi metteva il voto col metodo tradizionale e chi lo metteva così. Più o meno veniva la stessa cosa, dunque sembra una pura perdita di tempo. Ma a cosa serve in realtà? A togliere all’insegnante il ruolo e l’autorità di mettere il voto, a far sì che il voto possa essere contestato dallo studente, dai genitori, spesso dal Preside. Quanto alle interrogazioni, in alcune scuole ormai sono programmate, cioè lo studente sa che sarà interrogato quel certo giorno, in quella materia, su quegli argomenti. Se è preparato si presenta, sennò non si presenta. Questo è un passo in avanti della democrazia? Non mi pare. Io ho fatto poi la polemica sul problema della condotta. Ho detto: “Professori, perché non tornate al 7 in condotta?”, sollevando una certa vivacità di polemica. Non so se avete la dichiarazione del Ministro di allora, De Mauro.D: Sì, anzi è interessante rileggerla. Il suo articolo sulla condotta è del gennaio del 2001 e il suo giornale, “La Repubblica”, fece a De Mauro questa domanda: se il prossimo Ministro della Pubblica Istruzione decidesse di riesumare il 7 in condotta Lei sarebbe d’accordo? Il Ministro rispose: “Come no? Ma ad alcune condizioni: il ripristino del primo Gabinetto Mussolini, e se venissero garantiti venti anni di dittatura, il ritorno alle elementari di quel tempo, quando un quarto dei bambini arrivavano alla quinta elementare e il 10% dei giovani si iscriveva alle Scuole Superiori. Se l’Italia tornasse ad essere come quando il 70% del reddito proveniva dall’agricoltura, se chiudessero buona parte dei giornali, se venissero sospese le trasmissioni televisive e ripristinata l’EIAR e tutti andassero in Piazza Venezia. Il 7 in condotta faceva corpo con questa visione dello Stato, faceva corpo con le punizioni fisiche.” Da che cosa può nascere secondo lei una dichiarazione così fuori misura?R: Questo è un test significativo. De Mauro è un grande linguista, è un uomo di cultura. Ma evidentemente, come tanti altri, è permeato dall’idea che ogni elemento d’ordine, ogni limite, ogni principio di gerarchia, anche quella più democratica, sia un principio fascista. È un’assurdità, però è un’assurdità che è si è affermata col ‘68. Quella del Ministro è una dichiarazione che un vecchio comunista, per esempio Togliatti, non avrebbe mai fatto. Sarebbe stata considerata una dichiarazione anarco-sindacalista piccolo borghese. L’abolizione del 7 in condotta (poi reintrodotto, ma per modo di dire) significa che qualunque comportamento – diciamolo pure – illegale di un alunno non deve avere influenza sul profitto. Allora cosa avviene? Molti ragazzi, la maggioranza, si comportano correttamente. Ma se una piccola minoranza risponde male agli insegnanti, insozza i gabinetti, butta per aria i registri, appicca il fuoco alla scuola, questi comportamenti non concorrono alla valutazione complessiva, perché la condotta non è considerato un elemento coesistente con il profitto. Da lì parte il problema, non di qualche caso di bullismo, ma di questa atmosfera di assoluta indisciplina, di rivolta, di maleducazione, di aggressività. Quindi quello che è accaduto in quest’ultimo periodo non è strano. A un bambino, e poi a un ragazzino, si deve dare il senso che esiste la libertà, ma che questa ha dei limiti nella libertà altrui. La gravità non sta tanto nel fatto che un bambino o un ragazzo commettano un’infrazione: le abbiamo commesse tutti. Però sapendo che era un’infrazione. Se invece gli dici che l’infrazione non esiste e che la sua autodisciplina deriva solo da una specie di autoconvincimento, è chiaro che il giovane sarà sempre più spinto ad affermare la propria personalità a spese dei compagni. La mia seconda battaglia è stata quella contro l’uso del telefonino a scuola. Così mi sono scontrato anche con questo Ministro. Prima di divieti non voleva sentirne parlare, poi ha accettato di invitare le scuole non a proibire l’ingresso dei telefonini (come si dovrebbe fare), ma a chiedere che non vengano usati durante le lezioni, mentre durante l’intervallo si può. Così non si tiene conto che oggi il telefonino è diventato un’arma impropria, con cui si può mandare tutto in rete. Viene picchiato un handicappato, vengono commessi atti semipornografici o veramente pornografici, violenze sessuali: tutto questo va in rete attraverso il cellulare. È come andare a scuola con una pistola. Questo accade per ragioni di stupidità culturale, ma anche di debolezza, perché si ha paura di affrontare uno scontro con i genitori, che considerano il telefonino indispensabile perché devono stare sempre in contatto. Quei genitori che non stanno in contatto in casa, che lasciano perdere i loro figli, invece hanno bisogno di tenere il contatto telefonico. È attorno a questi temi che consiglio di tentare delle battaglie, probabilmente perdendole tutte, come l’eroe di Cent’anni di Solitudine, il colonnello Buendìa, che fece 34 battaglie e le perdette tutte. D: Dottor Pirani, il nostro convegno tratta di merito e legalità riferendosi anche agli insegnanti. Lei è d’accordo con il professor Ichino per cui la prima cosa da fare è colpire il demerito? E ritiene che sia giusto avviare una carriera anche per i docenti, come qualcuno sostiene?R: Bisogna riqualificare la professione degli insegnanti, il che vuole dire certamente far sì che la loro capacità e il loro impegno vengano misurati attraverso criteri oggettivi. In Inghilterra, ad esempio, c’è un’agenzia di valutazione di alto livello completamente esterna al Ministero, che valutano la scuola nel suo insieme e gli insegnanti secondo certi criteri. Teniamo conto che molti insegnanti svolgono un ruolo secondo me “eroico”: sono pagati poco, spesso sono insultati dai ragazzi o minacciati dai genitori, non sono appoggiati dal Preside; eppure seguitano ad insegnare, seguitano a battersi. In certe scuole ce la fanno e allora si dice: “Se l’insegnante è autorevole, tutti questi problemi che Pirani indica non esistono. Dunque basta l’autorevolezza”. Ma l’autorevolezza non è che tutti se la possono dare. I docenti sono circa ottocentomila. È una massa che ha i suoi picchi di eroismo e le sue bassure di rassegnazione. C’è molto opportunismo, ci sono insegnanti ormai stanchi. Però teniamo conto della persecuzione cui sono stati sottoposti e del loro basso livello di stipendio. Ci sono studenti che li insolentiscono per questo: “Ma lei quanto guadagna, perché non va a fare la puttana!?” E nessuno caccia via uno che parla così. Invece andrebbe sospeso per l’intero anno e fatto ripresentare l’anno dopo. Siccome questo è fascismo, è lesa maestà del cliente, ecco che le giovani generazioni, quando si troveranno a competere nella vita, abituate a non competere più nemmeno con se stessi, si troveranno in una situazione o di frustrazione estrema o di violenza. Così abbiamo alcuni giovani di grandissimo livello, che spesso vengono mandati all’estero a studiare, e una maggioranza di ragazzi con meno mezzi che si pensa di compensare attraverso il lassismo. Per questo il livello medio dei risultati, nei confronti europei, è molto basso. Dunque abbiamo una divisione di classe che non avevamo mai avuto in questi termini. Questo è il frutto della pedagogia all’italiana. Quanto meno in Francia, in Inghilterra, in America, dove la scuola ha crisi di questo tipo (perché c’è anche lì un’ideologia di questo genere), però ci sono delle scuole di eccellenza. Noi non abbiamo nulla di tutto questo, in nome della democrazia mandiamo avanti tutti, ma nel modo che ho detto. Per questo negli ultimi anni le Università hanno dovuto rinunciare a far fare i compiti scritti, perché erano pieni di errori di ortografia. Non capire la drammaticità di tutto questo è una responsabilità gravissima di quelle che non chiamerei nemmeno più classi dirigenti: sono il ceto sociale che si è impadronito del prodotto politico e lo gestisce in modo autoreferenziale a suo uso e consumo. La conclusione è questa.D: Bene, grazie dottor Pirani per il suo contributo e anche per quello che ha fatto e speriamo vorrà fare per la scuola italiana.R: Speriamo, ma temo che prenderò altri insulti...