ŽSeguiamo lŽAfricaŽ, Emma Bonino

SEGUIAMO LŽAFRICA

Vanity Fair - 6 aprile 2011

di Emma Bonino

Il Jurassik Park arabo è destinato a chiudere i battenti per sempre? CŽè da augurarselo. Tre mesi dopo il "kifaya!" - basta! - gridato dal giovane fruttivendolo tunisino prima di darsi fuoco, il genio è definitivamente uscito dalla bottiglia: le transizioni arabe, cariche di rischi ma anche di opportunità, sono processi ormai irreversibili.

Da oltre 40 anni, la leadership araba si era fermata nel tempo: Gheddafi è andato al potere in Libia nel 1969; Saleh in Yemen nel 1978; Mubarak in Egitto nel 1981; Ben Alì in Tunisia nel 1987; per non parlare della longevità di regimi "dinastici", pur non essendo delle monarchie, come quella degli Assad in Siria. Paesi dove lŽetà media è di 25 anni: più della metà della popolazione è nata e cresciuta sotto lŽoppressione di un singolo dittatore. Per usare unŽespressione kennedyana, "ora la fiaccola è passata nelle mani di una nuova generazione". Una generazione che aspira ai valori universali della libertà e che ha fatto cadere l’ultimo velo della cosiddetta "eccezione araba", un concetto che, come radicali, abbiamo sempre contrastato, anche quando sembrava politicamente scorretto farlo, perché la democrazia non è un prodotto da import-export ma un processo da sostenere dall’interno.

La domanda, quindi, è: cosa farà ora la comunità internazionale per accompagnare questi processi, dopo aver sostenuto per decenni i despoti? Le risoluzioni dellŽOnu cŽimpongono un obbligo nei confronti della popolazione libica ma non cŽè solo la Libia. CŽè una serie di paesi, ognuno con le sue specificità. Una delle ragioni per cui i governi occidentali non hanno visto arrivare le rivolte è di aver fatto delle realtà arabe un grande amalgama. I fatti della Libia hanno ottenuto lŽattenzione mondiale distraendoci, però, da avvenimenti molto significativi: in Egitto - i cui sviluppi tendono a riverberarsi nellŽintera regione - si procede a tappe forzate verso lŽincognito, in Bahrain è abortito per ora qualsiasi tentativo dŽintrodurre un nuovo ordine costituzionale, in Siria e Yemen la situazione rimane drammaticamente in bilico, sullŽAlgeria è calato un sinistro silenzio...

Al di là della crisi libica dobbiamo mantenere la nostra capacità dŽanalisi complessiva. Esattamente il contrario di quello che sta accadendo in Italia, dove il governo oscilla tra allarmismo e vittimismo. Prima si vagheggia una "ondata biblica", poi non si riesce neppure a gestire lŽarrivo di 18-20 mila tra sfollati e migranti; prima si invoca lŽEuropa per quello che non può fare, poi si piagnucola perché si è "stati lasciati soli". La verità è che lŽEuropa è quella voluta dai 27 stati membri i quali, nella loro "saggezza", hanno deciso che per i flussi migratori ognuno faceva per sé, tantŽè che nel Trattato di Lisbona si sono ben guardati dallŽincludere una politica comune per lŽimmigrazione. La soluzione proposta poi dal Ministro Bossi - "fora da i ball" - non solo è poco lungimirante riguardo al fabbisogno di manodopera nel nostro "mitico" nord-est ma non è neppure il miglior viatico per gli imprenditori italiani che vorranno partecipare al futuro sviluppo del Maghreb.

Riguardo ai richiedenti asilo infine, i recenti dati Eurostat dimostrano come lŽItalia sia in realtà poco ospitale, soprattutto in relazione agli abitanti. Se si dovesse fare una seria ripartizione degli oneri - la tanto evocata burden-sharing - lŽItalia dovrebbe accollarsene di più, non meno.

A metà aprile si riuniranno a Napoli i Ministri degli Esteri dei principali paesi delle due sponde del mediterraneo nella cornice del cosiddetto "Dialogo 5+5" e del "Forum Med". Attraverso il Ministero degli Esteri italiano, lŽassociazione radicale Non cŽè Pace senza Giustizia cercherà di usare questŽoccasione per dare voce alla leadership civile di quei paesi organizzando, non un "forum parallelo" poco produttivo, ma, per la prima volta, un incontro congiunto. Questo punto è fondamentale perché dŽora in poi, nelle sedi multilaterali, c’è il rischio che tra "regimi" si trovi presto lŽaccordo sulle "riforme" o, peggio ancora, che i governi occidentali diventino gli interlocutori esclusivi, esautorando i fruitori di quelle riforme, ovvero i cittadini dei paesi da cui gli sconvolgimenti storici ai quali stiamo assistendo hanno preso le mosse.