radicales! legalizemos el p2p!

Radicali! Legalizziamo il p2p!
(1° parte)

di Daniele Bertolini

Generalmente per peer-to-peer (o P2P, “condivisione di risorse fra pari”) si intende unarete di computer o qualsiasi rete informatica che non possiede client (componente che accede a servizi risorse) o server (componente informatica che fornisce servizi ad altre componenti) fissi, ma un numero di nodi equivalenti (peer, appunto) che fungono sia da client che da server verso altri nodi della rete. Questo modello di rete è l'antitesi dell'architettura client-server. Mediante questa configurazione qualsiasi nodo è in grado di avviare o completare una transazione. In altri termini, la tecnologia “peer to peer” rappresenta una forma di comunicazione che avviene direttamente tra due utenti finali senza l’intermediazione di un server centrale, il quale svolge semplicemente una funzione di autenticazione degli utenti, nel momento in cui si collegheranno al sistema. Tutte le attività di condivisione, su tali sistemi, sono effettuate in maniera decentrata, cioè i file passeranno solo ed esclusivamente per i computer dei vari peer, divenendo quindi la cosa un fatto

personale tra i singoli soggetti interessati.

Il fenomeno del Peer-to-Peer sta vivendo un periodo particolarmente controverso, dove espansione e repressione del fenomeno convivono, in una dinamica conflittuale che vede da un lato un numero sempre crescente di utilizzatori e dall’altro le reazioni dei grandi produttori di contenuti. Al centro dello scontro si situano le Corti e i giudici di tutti i Paesi nel quale la tecnica del P2P è sempre più diffusa, mentre la politica pare incapace di una reale comprensione del fenomeno e per ora resta ancorata a malintese letture repressive e proibizioniste del concetto giuridico e della funzione economica del copyright.

L'esempio classico di P2P è la rete per la condivisione di file (File sharing). Gli scambi in rete di files musicali aumentano. Aumentano anche le preoccupazioni dell'industria e le azioni legali portate, a volte in maniera indiscriminata, contro gli utenti dei sistemi Peer-to-Peer. Aumentano gli annunci, sui quotidiani, di indagini che coinvolgerebbero migliaia di utenti che scambiano files in rete (annunci, poi, in molti casi, ridimensionati, ma che hanno un grande impatto mediatico). Aumentano le sentenze in favore degli "scambisti" di musica online (si veda ad es. il caso Grokster negli Stati Uniti e, comunque, tutte quelle decisioni - Jon Johansen in Norvegia, mod-chip della PS a Bolzano - che prendono le parti dei consumatori e che ricordano i limiti che devono essere rispettati anche nelle azioni legali). Aumentano i giudici che sono sempre più attenti ad analizzare tutti gli aspetti legali del caso, e non solo quelli connessi al rilievo economico del fenomeno o alla interpretazione che di tale fenomeno danno le grandi "corporazioni".

Il problema spesso nasce dalla circostanza che ad una nuova tecnologia si contrappone una concezione anacronistica e inadeguata della tutela del diritto d’autore e una serie di normative scritte e pensate quando il fenomeno del P2P e, più in generale, le dinamiche dell’economia dell’innovazione e dell’informazione basate sull’ICT, non sono ancora comprese dai legislatori nazionali e sovranazionali.

I tipi di file maggiormente condivisi in questa rete sono gli mp3, o file musicali, e i DivX i file contenenti i film. Questo ha portato molti, soprattutto le compagnie discografiche e i media, ad affermare che queste reti sarebbero potute diventare una minaccia contro i loro interessi e il loro modello industriale. Di conseguenza il peer-to-peer divenne il bersaglio legale delle organizzazioni che riuniscono queste aziende, come la RIAA (Recording Industry Association of America) e la MPAA (Motion Picture Association of America).

La causa per violazione del diritto d'autore online più seguita dal pubblico dopo la scomparsa di Napster è il caso Grokster negli Stati Uniti: la RIAA e la MPAA hanno citato in giudizio Streamcast, Grokster e la casa madre originale del software di Kazaa principalmente utilizzato per scambiare file musicali mp3 e divenuto dal 2003 l'applicazione peer-to-peer più diffusa nel mondo. Rovesciando completamente le precedenti vittorie delle etichette discografiche e degli studi cinematografici, il giudice federale Stephen Wilson della circoscrizione di Los Angeles ha stabilito che Streamcast e Grokster non sono da ritenersi responsabili per la violazione del diritto d'autore commessa da terzi che utilizzano il loro software. “Lo scambio di file peer-to-peer è una tecnologia che può essere utilizzata per attività che sono completamente estranee alla violazione del copyright e la tecnologia non deve essere vietata solo per impedire che venga utilizzata a scopi illeciti”, hanno detto i sostenitori. Per sostenere questo argomento, il giudice ha fatto riferimento alla sentenza emessa nel 1984 dalla Corte Suprema che sancì la legalità del videoregistratore Betamax di Sony e istituì la dottrina dell’"uso prevalentemente non illegale", che protegge le aziende tecnologiche che distribuiscono prodotti – come videoregistratori o fotocopiatrici – che possono essere impiegati sia per scopi leciti che illeciti. "

Il principio affermato dal giudice Wilson può valere anche come criterio fondamentale di politica legislativa e riassumere l’approccio più utile cui il Legislatore dovrebbe attenersi nel disciplinare l’utilizzo delle tecnologie emergenti nell’economia dell’ICT. In particolare, con riferimento all’utilizzo della sanzione penale, è ancora validissimo il tradizionale criterio di politico criminale per cui un fatto diviene “reato” quando la sua commissione conduce ad un “grave danno sociale”. E’ in questa prospettiva che occorre affrontare il tradizionale trade-off che opera sullo sfondo delle tematiche legate ai diritti d’autore, vale a dire il trade/off sicurezza/innovazione. Oggi le legislazioni nazionali sono gravemente sbilanciate sul versante della sicurezza, causando un pesante sacrificio alla libertà di accesso ai contenuti, all’informazione, alla conoscenza. Si profila il rischio che il diritto d’autore, nato a garanzia dell’innovazione e del progresso sociale ed economico, divenga in alcuni casi un elemento di negazione della libertà circolazione delle idee, delle opere, dei contenuti.

Il criterio del “danno sociale” è espresso magistralmente da Lawrence Lessig con riferimento alla applicazione più diffusa della tecnologia P2P, il c.d. file sharing, in un suo recente libro significativamente intitolato Free Culture, nel quale egli chiarisce la necessità di individuare e distinguere le ipotesi socialmente vantaggiose di utilizzo della tecnologia di condivisione dei contenuti, al fine di evitare che la società debba fare a meno dei vantaggi del p2p (anche quelli completamente positivi e che non comportano tensione con i diritti degli autori) semplicemente per avere la certezza che non si verifichi alcuna violazione del copyright a causa del p2p stesso.

Un sicuro beneficio reso possibile dal file-sharing è quello di rendere disponibili materiali tecnicamente ancora coperti da copyright, ma non più reperibili a livello commerciale. Inoltre le reti di file-sharing consentono l'esistenza della condivisione di contenuti che i detentori del copyright vogliono condividere o per i quali non esiste un diritto d'autore continuativo. Non si tratta di categorie da poco. Esistono milioni di pezzi musicali ormai fuori dal circuito commerciale. E, anche se si può immaginare che parte di questi contenuti non siano più disponibili perché così vogliono i rispettivi artisti, la grande maggioranza non è reperibile solamente perché l'editore o il distributore ha deciso che a livello economico non ha più senso per l'azienda tenerli in circolazione. In questo caso il vantaggio di circolazione delle opere è privo di qualsiasi ricaduta negativa sugli autori o sulla catena distributiva commerciale. La condivisione di questo tipo di file, dunque, è assai simile ai negozi di libri e dischi usati. Ne differisce solo perché la persona che mette a disposizione quei materiali non ne ricava denaro.

La domanda da porsi è come preservarne al meglio i benefici riducendo al contempo al minimo (per quanto possibile) il danno che causa agli artisti. È un problema di equilibrio. La legge dovrebbe mirare a tale equilibrio, che potrà essere raggiunto soltanto col tempo.

Per l’immediato si tratta dunque di impedire che la “guerra” contro la violazione del copyright rimanga una “guerra” contro le tecnologie di file-sharing. Oggi tolleranza zero vuol significare zero p2p.

Di certo, come vedremo, l’attuale approccio proibizionista, adottato con il famigerato decreto Urbani (D. l. 72/2004), è ben lontano da una legislazione equilibrata che punisca le violazioni di copyright dall’uso vantaggioso di tecniche di filesharing. 

(2a part)

Il punto da cui cominciare la riflessione politica su quale legislazione sia oggi più adeguata per disciplinare il fenomeno del peer to peer è che la condivisione di documenti attraverso la rete telematica rappresenta un grande progresso informatico, essendo uno strumento grazie al quale è possibile condividere file di qualunque genere (musicale, fotografico, video, di testo o quant’altro è possibile produrre a livello digitale) con chiunque vi abbia interesse o necessità, grazie ad appositi programmi liberamente reperibili sul web. Tutto ciò costituisce un enorme vantaggio rispetto ai tradizionali metodi di diffusione del passato, in quanto consente di mettere a disposizione di un numero indefinitamente alto di potenziali interessati, documenti di carattere scientifico, artistico, culturale, didattico etc., che altrimenti rimarrebbero limitati nella disponibilità di pochi.  Certamente, il Peer-to-Peer può servire a diffondere, contro la volontà e i diritti dell'autore e di altri aventi diritto, materiale protetto; ma equiparare il fenomeno del peer-to-peer alla pirateria informatica o al contrabbando agli angoli delle strade è al di fuori di ogni logica.E’ ormai provato che la condivisione gratuita dei contenuti on-line non danneggia i detentori dei diritti, ma addirittura in alcuni casi induce un “bisogno” di cultura che ha positive ricadute anche sul mercato. Una recente ricerca dell’Anica (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche Audiovisive e Multimediali), ad esempio, dimostra che tra chi fa file sharing  vi è una maggiore propensione ad andare al cinema rispetto al resto della popolazione. E’ altresì recente la notizia che il mercato dell'industria discografica sta per accogliere un'importante novità che debutterà in rete il prossimo ottobre: si tratta della piattaforma P2P denominata Qtrax che, con il consenso delle major discografiche, metterà gratuitamente on line a disposizione degli utenti, un database di musica contenente oltre 20 milioni di canzoni. Il progetto sarà avviato da una nuova società quotata in borsa, la Flooring Zone, le cui partecipazioni di maggioranza saranno della Brilliant Technologies Corporation, mentre il restante 20% del pacchetto azionario sarà reso pubblico. Considerato il costante declino delle vendite di dischi e la pressoché ormai consolidata esistenza dei sistemi di file sharing e del loro incessante utilizzo per la distribuzione di file musicali, le major del settore hanno pensato di sfruttare questa tecnologia a loro vantaggio, intravedendone una potenziale nuova fonte di guadagno: EMI, Sony BMG, Universal Music Group e Warner Music Group hanno quindi approvato l'iniziativa della Brilliant Technologies Corporation, autorizzando la condivisione delle loro produzioni nella piattaforma gratuita Qtrax e finanziando tale attività attraverso la pubblicità e le sponsorships. Da questa attività ci si aspetta un ricavato oscillante fra i 20 milioni di dollari fino ad un massimo di 175 milioni che verranno spartiti fra detentori dei diritti, autori, editori, artisti e discografici. Ci sono molte altre esperienze, nel mondo ed in Europa, che costituiscono esempi concreti della capacità di consentire e garantire la semplificazione della comunicazione sociale attraverso la condivisione on-line: il Mit di Boston ha posto sotto pubblico dominio tutta la produzione scientifica che docenti e ricercatori producono nell’università, la Bbc consente il libero accesso via Internet a tutto il suo archivio, l’Authority britannica ha separato la rete dai servizi dell’ex monopolista telefonico Bt. Nella cablatissima Corea del Sud il videogioco FIFA07 viene distribuito liberamente, supportato dalla pubblicità. Sono tutte esperienze che stanno a dimostrare come oggi, grazie al sistema digitale di interconnessione ed interazione, la condivisione della conoscenza e la modalità produttiva cooperativa, - rese possibili da nuovi modelli di disciplina dei diritti d’autore che consentano il libero accesso ai contenuti - portino una evidente efficacia qualitativa, tanto nei prodotti come nei processi. Infine, un recente articolo del Wall Street Journal sembra sdoganare definitivamente il fenomeno del P2P, che sta modificando profondamente le caratteristiche e i modelli di business: la prova definitiva della rivoluzione compiuta dalla condivisione dei contenuti digitali in rete è data dal fatto che nelle radio americane, in questi mesi, si ascolta principalmente la musica che “va forte” sulle reti di P2P. In altre parole, il P2P si impone anche nelle radio statunitensi, che ne seguono le tendenze per stabilire le classifiche musicali, mandando in soffitta le hit parade industriali. Vediamo qual è la disciplina giuridica del P2P in Italia con riferimento alla tecnica del file sharing. In prima battuta si può dire che il P2P non è illegale di per sé. Tutto dipende dall’oggetto (cosa si condivide) e dalle modalità della condotta (lucrativa o meno). La norma di riferimento è contenuta nell’art. 171 ter, comma 2, lett. a bis) della legge 22 aprile 1941 n. 633 (legge sul diritto d’autore) la quale punisce con la reclusione da uno a quattro anni e con la multa da € 2.582 a € 15.493, chiunque in violazione dell’art. 16 per trarne profitto comunica al pubblico, immettendola in un sistema di reti telematiche, mediante connessione di qualsiasi genere, un’opera dell’ingegno protetta dal diritto d’autore o parte di essa.  La sussistenza del reato presuppone pertanto la violazione della normativa sulla copia privata di materiale audiovisivo. Con riferimento alle opere musicali la normativa italiana sul diritto d'autore, consente all'acquirente dell’opera (singolo brano o intero Compact Disc) di effettuare una sola copia per uso personale. Ciò vuol significare che non può condividere tale copia con altre persone. La legge, inoltre, prevede un equo compenso applicato anticipatamente sul supporto di memorizzazione in modo che il titolare dei diritti venga retribuito anche per l’effettuazione della copia privata. Di conseguenza deve ritenersi consentita la copia privata comunque effettuata purchè non effettuata da terzi. Va però osservato che la posizione di chi scarica la copia non autorizzata, non è la stessa di colui che, avendola abusivamente duplicata, la mette in rete per lo scambio. Vanno tenute ben distinte le posizioni di chi distribuisce l’opera protetta (uploader) e di chi la scarica (downloader). Il primo, se non ha acquisito il relativo diritto, commette sicuramente un atto penalmente illecito. Il secondo non sta violando alcuna legge. L’utente che scarica l’opera, infatti, la memorizza su un supporto per il quale ha già pagato a monte l’equo compenso per la duplicazione e dunque ha il diritto di fruire dell’opera per uso personale. Con l’entrata in vigore del D. l. 72/2004 (decreto Urbani) per la configurazione dell’illecito penale è necessario un altro elemento costitutivo: il dolo specifico di profitto, vale a dire l’intenzione di acquisire un vantaggio patrimoniale per effetto della condotta, si in termini di effettivo accrescimento della sfera patrimoniale, sia di mancata perdita o risparmio di spesa. Pertanto, incorre in responsabilità penale non solo chi mette in rete file protetti da diritto d’autore al fine di lucro (fine di guadagno) ma anche chi condivide file protetti (uploader) da diritto d’autore senza fini di lucro ma al solo scopo di consentire da parte di terzi un uso personale risparmiando la spesa per l’acquisto (art. 171 ter, comma 2, lett. a bis). Sempre per effetto del Decreto Urbani chi scarica file protetti da diritto d’autore (il semplice downloader) è punito con una sanzione amministrative pecuniaria di € 154 e sanzioni accessorie della confisca del materiale e della pubblicazione del provvedimento su un giornale quotidiano a diffusione nazionale (art.171-quater un comma 3). Ovviamente a fianco della responsabilità penale sussiste anche la responsabilità civile, relativa al risarcimento dei danni causati alle case di produzione discografica. Pertanto, nonostante tale attività, nella maggior parte dei casi non venga penalmente perseguita, tenuto conto anche della gratuità (dunque senza fine di profitto) con cui il file viene condiviso attraverso i sistemi di “filesharing”, vi è comunque il pericolo di divenire destinatari di azioni di natura civile a carattere risarcitorio, volte ad ottenere il risarcimento dei danni che le major discografiche possono lamentare. Infatti, fatta salva la copia ad uso personale, queste ultime di norma non riconoscono all’utente il diritto di riprodurre e distribuire i brani musicali acquistati. L’incriminazione del file-sharing è una tipica ipotesi di reato “artificiale” cui non corrisponde la percezione del disvalore del fatto da parte dei consociati, per i quali lo scambio di materiali (pur illecito) è avvertito come naturale e culturalmente accettato. Immaginiamo quale sarebbe il risultato di portare a giudizio centinaia di giovani con l'imputazione di aver scambiato files protetti dal diritto d'autore! Che la criminalizzazione del file sharing sia in molti casi una risposta irragionevole e inidonea a realizzare un giusto equilibrio dei diversi valori costituzionali in gioco emerge anche dalla recente pronuncia della Corte di Cassazione che ha affermato il principio secondo cui scaricare da internet files protetti da copyright non è reato se non c'è scopo di lucro (sentenza numero 149/2007 con cui la III sezione penale della Corte di Cassazione ha accolto il ricorso presentato da due studenti torinesi, condannati in appello ad una pena detentiva, sostituita da un'ammenda, per avere duplicato abusivamente e distribuito programmi illecitamente duplicati immagazzinandoli su un server del tipo Ftp dal quale potevano essere scaricati da utenti abilitati all'accesso tramite un codice identificativo e relativa password). Occorre tuttavia precisare che la predetta sentenza si riferiva a fatti precedenti all’introduzione delle modifiche da parte del D.l. 72/2004 (decreto Urbani). Infatti, come visto, con tale ultimo intervento il legislatore ha ampliato l’ambito di applicazione della norma che incrimina il file sharing sostituendo al “fine di lucro” il “fine di profitto”. Per effetto di tale modifica si è notevolmente ampliato l’ambito di punibilità essendo sufficiente al fine di integrare il dolo specifico di profitto un qualsiasi vantaggio patrimoniale compreso il risparmio di spesa derivante dall’uso di copie non autorizzate di opere dell’ingegno. Tutte le ragioni sin qui esposte sono alla base della proposta di legge presentata proprio in questi giorni dal deputato radicale Marco Beltrandi, che introduce “nuove norme in tema di autorizzazione alla messa a disposizione del pubblico di archivi attraverso reti digitali per fini personali e senza scopo di lucro”. Si introduce un meccanismo analogo alle licenze collettive estese in vigore nei paesi nordici con l’obiettivo di delineare un quadro legislativo che promuova la capacità dei titolari dei diritti di sviluppare una nuova generazione di modelli di licenze collettive destinati agli utenti on line, che siano meglio rispondenti alle esigenze del mondo informatizzato. Il sistema in questione si traduce nel promuovere accordi tra le società di gestione collettiva significativamente rappresentative degli aventi diritto e le associazioni rappresentative degli interessi degli utilizzatori che definiscano le condizioni di uso delle opere autorizzando lo scambio e la condivisione di contenuti digitali. Questo sistema di autorizzazione basato sull’acquisto volontario di licenze collettive da parte degli utilizzatori offre alla attività di file sharing una via ragionevole per diventare legale nel rispetto dei diritti degli autori e dei diritti connessi.  Nell’ambito delle condizioni d’uso fissate in via di contrattazione collettiva diverrebbe lecita la riproduzione di copie anche da parte di terzi e la loro messa a disposizione del pubblico senza scopo di lucro. Rimarrebbe ovviamente penalmente rilevante il file-sharing esercitato al di fuori del regime convenzionale di autorizzazione stabilito dalla contrattazione collettiva o esercitato con finalità di lucro. Tale disciplina consentirebbe di rendere oneroso il file sharing di chi condivide per non acquistare, salvaguardando al contempo la libera circolazione delle opere dell’ingegno e, più in generale, tutte le esternalità positive determinate dalla tecnica del file sharing mediante reti peer to peer. E così possibile, al contrario di quanto avviene oggi - per effetto di una politica incapace di immaginare ed elaborare soluzioni alternative al ricorso alla sanzione penale - combinare due fondamentali esigenze: il riconoscimento di diritti che riguardano la produzione intellettuale, culturale, le opere dell’ingegno, i diritti d’autore con il riconoscimento di valori costituzionali, da cui il diritto d’autore medesimo ripete i propri limiti come il proprio fondamento, quali i diritti e le libertà individuali delle persone in ordine all’accesso alla cultura, alla fruizione, alla produzione e alla circolazione della conoscenza.