"Il principio del laicismo", G. Calogero

Il principio del laicismo
di Guido Calogero

Il 19 aprile del 1959,al teatro Eliseo di Roma, in occasione del trentennale della firma del Concordato tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, ebbe luogo un convegno, organizzato dagli “Amici del Mondo”. Le relazioni di quel convegno furono di Enzo Tagliacozzo (“Dalla legge delle Guarentigie ai Patti Lateranensi”); Guido Calogero (“Il principio del laicismo”); Leone Cattani (“I Patti Lateranensi nella vita italiana”); successivamente queste tre relazioni, introdotte da Ignazio Silone, vennero raccolte in volume: “A trent’anni dal Concordato”, pubblicato dall’editore Parenti, di Firenze, decimo volume della collana “Stato e Chiesa”, diretta da Ernesto Rossi. Il volume – che purtroppo è reperibile solo, e con qualche fortuna, nel circuito delle librerie antiquarie – venne arricchito da un paio di “appendici”: le polemiche, svolte sulla rivista comunista “Rinascita” (giugno e ottobre 1959) e sul settimanale “Il Mondo” (18 agosto e 3 novembre 1959), tra Aldo Natoli e Leopoldo Piccardi; oggetto della disputa, la possibilità e la convenienza di domandare la revisione o l’abolizione del Concordato; la seconda “appendice” è costituita dal discorso pronunciato da Ernesto Rossi a Firenze per il XX settembre (“Il nostro XX settembre”); e “Intervista a me stesso”, sempre di Rossi. “Intervista” che ha una sua storia: due agenti di Pubblica Sicurezza il 5 ottobre del 1959 si presentarono a casa di Rossi a Roma, con un ordine della procura della Repubblica di Firenze: dovevano sequestrare il testo del discorso pronunciato appunto il 20 settembre, non omettendo una “accurata perquisizione domiciliare” per rintracciarlo. Rossi rispose agli agenti che non poteva consegnare nulla, perché quel testo lo aveva dato alla rivista “Il Ponte”; e sul “Mondo” poi pubblicò, appunto, “Intervista con me stesso”, che nel libro dell’editore Parenti diventò “Io e Garibaldi”.

Quella che segue è la relazione di Guido Calogero, all’epoca titolare della cattedra di filosofia antica all’università di Roma, collaboratore del “Mondo”, autore di volumi che il tempo non ha usurato: “Lezioni di filosofia”, “Logo e dialogo”, “La scuola dell’uomo”, “Scuola sotto inchiesta”.

Gualtiero Vecellio.




Parrà forse strano che un filosofo intervenga a discutere di un argomento, il quale sembra di natura essenzialmente politico e costituzionale. Ma ogni tanto occorre, credo, risalire alle questioni di principio, proprio per ritrovare la certezza di alcuni punti di orientamento, che non dovrebbero mai essere perduti di vista. Il fatto stesso che se ne sia così saldamente convinti può infatti condurre a lasciarli riposare nei recessi più remoti della coscienza, e a scoprirli poi, all’occasione, appannati e arrugginiti dal tempo. Anche i principi eterni, nonostante tutto, hanno bisogno di essere collaudati di tanto in tanto.

E noi laici, per questo aspetto, siamo in generale più timidi, più esitanti, dei cattolici, e in genere di tutti coloro che professano fedi e religioni ben determinate e concluse. In confronto a loro, noi sembriamo spesso scarsi di fede, o almeno riluttanti nella professione dei nostri convincimenti più profondi. Accade così che il nostro laicismo appaia a molti quasi come una forma di agnosticismo, o addirittura di indifferenza scettica, piuttosto che come una più alta ed universale religione umana. Oppure accade che si presenti come una dottrina particolare, legata all’una o all’altra singola scuola filosofica – l’empirismo, poniamo, o il pragmatismo, o addirittura l’idealismo, o il materialismo – e quindi opposta al cattolicesimo nello stesso senso per cui ciascuna di queste filosofie appare incompatibile con la filosofia di quest’ultimo.

Vorrei subito dire che una delle ragioni principali per cui mi pare utile un rinnovato approfondimento del principio del laicismo è proprio quella di ripetere a tutti gli amici cattolici anche ciò che così spesso essi dimenticano. Noi parliamo anche per loro, noi difendiamo anche loro. Non difendiamo soltanto i fedeli di una certa visione delle cose, ma bensì i fedeli di ogni possibile visione delle cose.

Vero è che questo errore è compiuto spesso anche da noi laici, tutte le volte che consideriamo il nostro laicismo piuttosto come una filosofia tra le filosofie, come una ideologia opposta ad altre ideologie, che sono come la regola di convivenza di tutte le possibili filosofie e ideologie. Ma è appunto questa norma ultima, questa legge suprema di ogni coesione civile, che si tratta di ben comprendere quando ci si vuole render conto delle ragioni più profonde del laicismo.

E allora, come sempre, anche questo riesame critico deve cominciare col mettere in guardia da certe definizioni troppo sommarie e approssimative. Pericoloso, per esempio (per cominciare col mettere rapidamente da parte talune più che consuete inesattezze), è il credere che il laicismo s’identifichi semplicemente con la difesa delle ragioni dello Stato dall’invadenza di chi sostiene quelle della Chiesa. Per avvertire l’angustia di una simile prospettiva, basta pensare a quel che accadrebbe se ci trovassimo in uno Stato autoritario, il quale opprimesse le libertà religiose della Chiesa. Da che parte ci schiereremmo, in tal caso? La risposta non è dubbia. E questo mette in chiaro, anzitutto, che quanto veramente ci preme, in tale nostra difesa, non è lo Stato piuttosto che la Chiesa, né la Chiesa piuttosto che lo Stato, bensì una certa libertà tanto dell’una quanto dell’altro, e anzi, più esattamente, una certa libertà tanto dei fedeli dell’una quanto dei cittadini dell’altro. Se tale libertà è minacciata, se la prepotenza di alcuni invade indebitamente la sfera di autonomia di altri, noi sentiamo il dovere di difendere quella minacciata libertà, a chiunque essa appartenga, laico o ecclesiastico che egli sia.

Quel che difendiamo, di fatto, anche quando semplicemente ci schieriamo dalla parte dello “Stato”, non è poi senz’altro lo Stato, ma quel che meglio cerchiamo di designare chiamandolo lo “Stato di diritto”: e questa formula non è, in fondo, che una reduplicazione di termini, con la quale dichiariamo di riconoscere come Stato soltanto quello Stato che è giustificato dal diritto, o (che è lo stesso) dal suo porsi come garante dei diritti dei cittadini; cioè di non vedere, nello Stato, altro valore fuorché quello di servire a tener ferme, e a far efficacemente operare, le supreme norme della condotta. Conseguenza di ciò è che nessuna di tali norme potrà mai derivare la sua ragione ultima, e quindi esser considerata intangibile, per il solo fatto che sia sancita e sostenuta dalla forza dello Stato; bensì, al contrario, ogni norma avrà per me valore solo in quanto io la troverò conforme e cooperante con la norma di condotta che per me ha valore supremo, cosicché persino quest’ultima dovrebbe da me essere scartata e sostituita il giorno che io scoprissi una norma fondamentale ancora migliore, degna di disporre a suo servigio tutte le altre. Lo Stato, insomma, non ha mai alcun diritto, salvo che quello di servire al miglior diritto.

In un analogo equivoco si incorrerebbe d’altronde se, una volta riconosciuto in tal modo il carattere meramente strumentale di ogni forza dello Stato si attribuisse, per converso, quella idealità normativa alla Chiesa – come se la regola del “miglior diritto”, cioè lo sforzo di cercare forme di moralità e di civiltà sempre più congrue, ossia sempre più giuste consistenze di libertà, fosse qualcosa di definitivamente collocabile in una qualsiasi realtà naturale e storica, e non un valore, cioè un faciendum, da valutarsi come valore nell’attuale valutare e da volersi come programma di azione dell’attuale volontà, in seno alla presente coscienza di ognuno! – Di fatto la pigrizia morale dell’uomo, male educato da millenni di metafisiche dell’essere, tende sempre a tradurre i valori in esistenze, a definire quanto è sua responsabilità di scegliere e di far essere a una presunta scelta già compiuta per lui da qualcun altro, si tratti della Storia o della Realtà o della Divinità. E perfino quando egli si accorge che l’interrogativo ultimo non si pone mai circa quel che è ma bensì circa quel che si deve far essere, ossia circa il fine di proporsi e circa la regola da scegliere nella vita, - e come quindi non possa mai darsi più alto dramma metafisico di quello che quotidianamente si svolge fra la sua responsabilità e la norma che essa deve scegliere, - egli continua tuttavia a concepire questa Norma come una Realtà; e se ha il coraggio di non giustificarla come dettata da Dio, la sente tuttavia come scritta sulla Natura, e la chiama perciò, Diritto Naturale!

Se perfino gli illuministi sono tanto naturalisti e ontologizzati, non sorprende che anche gli storicismi di più classica tradizione vogliano trovare nel passato, e nella vita storica del mondo, una Realtà che li scarichi dalla personale responsabilità di tener ferma, ad ogni momento, la Scelta della Regola che ha Valore; e così anche un Benedetto Croce ha potuto riprendere la lista di Ranke, secondo cui tutta la storia non è che un’eterna lotta fra Stato e Chiesa, nella quale lo Stato rappresenta soltanto il momento della forza, e la Chiesa, invece, il momento dei valori ideali, il trionfo dello spirito sulle materiali necessità della vita. Anche questa non è, con ciò, che una delle tante formule filosofiche, di fronte alle quali va rammentato il principio di Giacomo Casanova, denominatosi cavaliere di Seingalt in virtù del diritto che ciascun individuo ha delle lettere dell’alfabeto. Se infatti, secondo questa formula intendiamo per Chiesa ciò che è buono e per Stato ciò che è cattivo, per Stato ciò che va combattuto o trasformato e per Chiesa ciò che va difeso e promosso, allora nessuna difficoltà a dire che la storia universale è una perenne lotta fra Stato e Chiesa, e che di conseguenza, in tale lotta, ogni persona per bene dovrà schierarsi piuttosto dalla parte della Chiesa che da quella dello Stato. Soltanto, non si vede perché si debba fare questo speciale complimento terminologico alla Chiesa, quando poi il danno non si limiterà soltanto a questo arbitrario atto di adulazione, ma al disorientamento arrecato nelle menti di tutti coloro che, incapaci di intendere il più sottile significato di quella terminologia, attribuiranno a una determinata Chiesa storica, e magari alla Chiesa cattolica, la qualità di portatrice esclusiva di ogni valore cosmico.

Di fronte a simili formule confusionarie – che non sono senza responsabilità per tanti aspetti del disorientamento mentale e politico dei nostri tempi – ogni persona di buon senso si terrà ferma alla regola secondo cui essa difenderà lo Stato dalla Chiesa quando la Chiesa è peggiore dello Stato e difenderà la Chiesa dallo Stato quando lo Stato è peggiore della Chiesa, occia – che è lo stesso – difenderà la libertà e il pari diritto dei singoli tanto dai cattivi Stati quanto dalle cattive Chiese. Questa è la regola laica: e, per ciò stesso, il principio del laicismo non è che il principio della democrazia, cioè,li amici cattolici, il laicismo s’identifica perciò con la difesa del pari diritto di ogni persona umana; per usare un linguaggio che dovrebbe essere ancora più vicino al loro cuore, esso s’identifica, più semplicemente, con la regola “non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te”. Il laicismo non è che l’applicazione più alta e difficile di questa regola, sul piano supremo dei convincimenti e delle fedi ultime, là dove ogni uomo si trova faccia a faccia con la Verità, cioè con quella che egli ritiene essere la Verità. “Non pretendere mai di possedere la Verità più di quanto anche gli altri possano pretendere di possederla!”.

Tra gli eguali, ed inalienabili, diritti degli uomini c’è infatti anche quello di vivere con la propria filosofia o ideologia o religione, anche se questa è diversa dalla filosofia, o ideologia o religione degli altri. Anzi questo (se vogliamo per un momento continuare ad usare la terminologia giusnaturalistica) è il diritto più fondamentale, ed inalienabile, fra tutti: giacché ogni altro diritto presuppone una valutazione di certi beni, della cui paritaria fruizione si rivendica perciò il diritto; e quindi esige la libertà di quella valutazione dei beni, la libertà di costruire la gerarchia delle proprie esigenze e preferenze, in funzione della propria visione generale del mondo. Io non faccio veramente, a un musulmano, quel che vorrei fosse fatto a me, se presuppongo che i suoi bisogni siano gli stessi dei miei, cioè se non tengo presente che la sua gerarchia dei valori può essere diversa da quella che ritengo valida io. Nel suo significato più profondo, la “regola aurea” del Vangelo si riduce con ciò alla “regola del dialogo”: “Intendi i punti di vista altrui, ed opera in conseguenza, così come desideri che gli altri facciano con te”. Quindi la libertà delle visioni del mondo è la più fondamentale di tutte le libertà; e di conseguenza il laicismo è la più importante di tutte le filosofie, in quanto filosofia della coesistenza delle filosofie.

Questo è il motivo per cui in altra occasione, io ho insistito sul punto che il laicismo non è tanto una dottrina o una religione, quanto una regola di convivenza per tutte le dottrine e per tutte le religioni. Ma una conseguenza non sempre chiaramente avvertita di questo punto è che, allora, nessuna dottrina può ascriversene in proprio il carattere, può, per così dire, arrogarsene la privativa. Altre volte ho cercato di esprimere ciò con la formula del laicismo non è tanto un carattere della dottrina propria, quanto una regola di comportamento di fronte alle dottrine altrui. Analogamente potrebbe dirsi che il laicismo più autentico non è quello che si ritiene di aver inserito e giustificato nella filosofia propria , né quello che si mette in atto di fronte alle filosofie degli altri.

Conseguenza di ciò è che anche le dottrine più elaborate ed avanzate nella difesa e nell’approfondimento delle ragioni del laicismo non potranno mai dare ai loro portatori la certezza di essere insufficientemente laici, se essi non osserveranno questa regola di fronte alle dottrine altrui. Abbiamo tutti una vecchia esperienza dei grandi “laici”, degli illustri teorici dello spirito critico e antidogmatico, pronti a diventare dogmatici e intolleranti appena qualcuno si metteva a discutere le loro idee. Questo, per lo più, è stato giustificato sul piano psicologico, come se soltanto la frale umanità di questi filosofi, soggetti ai morsi dell’ambizione non meno che gli altri comuni mortali, contraddicesse a ciò che nobilmente asseriva la loro dottrina, cosicché convenisse, anche nei loro riguardi, seguire il vecchio adagio del badare a quello che prete dice e non a quello che prete fa, insomma accettare le loro teorie e perdonare le loro personali impazienze. Senonché, riportata sul solo piano della teoria, la difficoltà risultava anche più spinosa: giacché, una volta concepito il laicismo come semplice risultato di un’argomentazione dottrinale, come si faceva ad esigere di essere laici rispetto allo stesso laicismo, senza far naufragare tutto in una scettica petizione di principio? Bisognava bene esser dogmatici sul punto dell’antidogmaticità, intolleranti sulla tolleranza…Ma questo spiegava d’altro lato, anche disobbedire alla propria regola proprio nel momento più importante, cioè in quello stesso in cui lo si stabiliva: il che, non era, davvero il ,miglior esempio di coerenza! Di qui le soddisfatte ironie di tanti “dogmatici”, fascisti o cattolici o comunisti che fossero, ben lieti di constatare che, in conclusione, anche gli avversari del dogmatismo credevano nel dogma dell’antidogmaticità.

Se d’altronde, per questo aspetto, non c’è mai una dottrina dello spirito critico, dell’antidogmaticità, del laicismo anticonfessionale la garantisca di per sé a chi l’accetta il possesso e l’esercizio di tale spirito laico e antidogmatico nell’occasione specifica in cui esso deve provare la sua virtù, e cioè nel momento in cui entra in contatto con le dottrine altrui, la contropartita di tutto questo è nel fatto che non c’è mai dottrina tanto rigorosamente dogmatica nella sua struttura, la quale non lasci comunque al suo portatore il problema di una comprensività, sia pur minima, per le opinioni dissenzienti. La realtà è che (se è lecita questa immagine) non ci sono soltanto i libri (le “bibbie”, verrebbe veglia di dire giocando sull’etimologia) non potrebbe mai valere altra regola fuorché quella su cui fondò la sua argomentazione il califfo Omar, quando, secondo la tradizione, ordinò che fosse data alle fiamme la biblioteca di Alessandria – O questi libri dicono quello che dice il Corano, e sono inutili; o non dicono quello che dice il Corano, e sono dannosi. Quindi, in ogni caso, è meglio distruggerli.

Di fatto, i libri non sono mai soli. Senza lettori, non farebbero nulla: non sarebbero nemmeno capaci di bruciarsi a vicenda. Il conflitto, o la tolleranza, nascono sempre fra i portatori dei libri: fra coloro i quali li hanno letti e vogliono rileggerli e che gli altri li leggono, e coloro i quali preferiscono che se ne leggano di diversi, in quanto ritengono che abbiamo maggior valore. Per dirla in termini socratici, il conflitto non è mai tra i semplici logoi, cioè fra i discorsi scritti, i quali, come dice una famosa pagina del “Fedro”, non sanno nemmeno difendere sé medesimi, e una volta richiesti di spiegar meglio il proprio significato si limitano a chiudersi in un solenne silenzio…Perché nasca tolleranza, oppure comprensione reciproca, occorre che quei discorsi divengano dei discorrenti, cioè degli interlocutori in un dialogo. E allora (o soltanto allora) contro la regola del califfo Omar si afferma la regola del re Asoka: - Ricordatevi di spettare la religione altrui ancora più che la religione vostra!

Ma tutto questo conferma sia che nessun filosofo laicista deve mai esser troppo sicuro del proprio laicismo, sia che non c’è seguace di fede intrinsecamente dogmatica il quale non possa, e quindi non debba, essere laico al di là di tale sua fede. Per gli uni ciò potrà riuscire più facile, per gli altri più difficile: ma non ci sarà mai, a priori, nessuna sicurezza logica dell’esser critici, e nessuna condanna logica all’esser dogmatici. Nessuno ha in tasca la criticità e l’antidogmaticità laica solo perché dispone di una logica o di una dialettica, dal momento che il suo spirito critico e antidogmatico consisterà appunto nella sua capacità di comprendere le critiche mosse dalle logiche e dalle dialettiche altrui alla logica e alla dialettica sua, ed eventualmente di correggere quest’ultima in funzione di quelle. Ma per ciò stesso nessuno è costitutivamente scevro di criticità per il solo fatto che la dottrina che propone, o che la fede a cui aderisce, si presenta come fondata su un principio dogmatico, cioè escludente, in un modo o nell’altro, la possibilità di essere sottoposto ad esame; giacché per quanto strenuamente egli rifiuti questo esame, non potrà mai rifiutare per lo meno l’esame delle sue ragioni di rifiutare tale esame, e si muoverà quindi anch’egli, in qualche misura almeno, sul terreno dell’exetazein, cioè della discussione e della criticità. Nessuno infatti può mai sottrarsi per interno alla legge del dialogo, salvo che rifiuti di entrare in qualsiasi rapporto di comunicazione con altri, e con ciò si cancelli dal mondo dei coesistenti. Ma neppure Iddio può concedersi questo lusso, a meno che si disinteressi di essere riconosciuto come iddio (e gli dei, in genere, hanno sempre tenuto al riconoscimento della propria autorità).

In questo senso, la filosofia laica ha spesso compiuto l’errore di ritenere che l’antidogmaticità critica fosse una prerogativa intrinseca della sua logica, e che per ciò stesso gli avversari fossero condannati alla “logica della dogmaticità”. Quante volte, per esempio, si è proclamata l’impossibilità per i modernisti, di introdurre una qualche dose di liberalismo critico nell’ambito della dottrina cattolica, con l’argomento che ciò avrebbe contraddetto alla “logica del cattolicesimo”, la quale, o si sarebbe dovuto trangugiare per intero, o si sarebbe dovuta rigettare tutta quanta, assorbendo in compenso la “logica dell’idealismo”! Con questo bell’argomento, tutte le centinaia e centinaia di teologie cristiane non approvate dal Papa (non parliamo soltanto delle innumerevoli dottrine protestanti, ma anche di tutto quanto non è completamente ortodosso nel cattolicesimo) venivano semplicemente respinte nel regno dell’ “illogicità”; e ciò non turbava questi sedicenti storicismi, perché una delle caratteristiche essenziali di tale modo di pensare è il convincimento – derivato anch’esso, in conclusione, dell’antica logica del SI e del NO – che al mondo soltanto due filosofie sono “logiche”: la propria e l’antitesi della propria, tagliata rigorosamente su misura per rivestirne il proprio avversario, condannato perciò a non mai uscirne salvo che per indossare l’uniforme del nemico. Non importava poi che, con ciò, i pensieri e i convincimenti dell’immensa maggioranza degli uomini esistenti al mondo diventassero e “illogicità”. I filosofi della “idea centrale” erano per lo più ben convinti che la catafratta e coerentissima logicità di questa idea avrebbe saluto compensarli del loro isolamento di sapienti, soli riusciti a salvarsi, sullo scoglio della logica, dell’ondeggiante oceano delle umane contraddittorietà.

Naturalmente i cattolici veri non obbedivano affatto a questa regola, così come non le obbediva nessun’altra persona al mondo: e di conseguenza i loro cattolicesimi erano copiosissimamente diversi, anche se forse non arrivavano a quella cifra di 6666 che una volta Gaetano Salvemini fissò come loro numero. Ed erano, si capisce, più o meno coerenti, come più o meno coerenti sono tutte le filosofie e le consapevolezze di questo mondo, ciascuna delle quali vede la coerenza propria e in funzione di essa scorge le incoerenze altrui, finché altre consapevolezze di questo mondo, ciascuna delle quali vede la coerenza propria e in funzione di essa scorge le incoerenze altrui, finché altre consapevolezze non la sottopongano allo stesso trattamento, eventualmente convincendola a modificare qualche aspetto della sua prospettiva. Il che non significa, s’intende, svalutare quest’obbligo di sempre maggior coerenza: ma soltanto mettere in guardia contro la presunzione di poterla possedere o controllare a buon mercato, mercé un qualsiasi strumento logico o dialettico, E quindi si poteva ben dire, poniamo, che il “cattolicesimo liberale” di certi cattolici era un po’ meno coerente del liberalismo laico di certi idealisti, fermo restando che quest’ultimo era a sua volta poco coerente in altri aspetti della sua prospettiva. Non c’era di conseguenza alcun motivo per non riconoscere anche a quei “cattolici liberali” il diritto di vivere, e anzi per non aiutarli contro cattolici meno liberali.

Di fatto, il concreto atteggiamento dei cattolici, sia rispetto alla loro stessa dottrina sia rispetto ai portatori di dottrine divergenti, è stato infinitamente vario, come non poteva non essere (donde, fra l’altro, la sempre rinnovatesi ammirazione per la millenaria saggezza della Chiesa, capace di tenere nel suo seno tipi così diversamente dotati di spirito liberale come, poniamo, certi gesuiti della “Civiltà cattolica” e certi insegnanti dell’Università di Lovanio). Di conseguenza, perfino quando si continuasse a dire che il cattolicesimo non può mai essere liberale, bisognerebbe aggiungere che niente vieta che siano liberali i cattolici. Ed essi lo sono, di fatto, tutte le volte, e nella misura in cui, obbediscono in questo senso alla fondamentale regola evangelica, di cui non fare agli altri quello che non vorrebbero fosse fatto a sé, cioè di non presumere per sé, e per la propria interpretazione della verità, più di quanto per la loro possano presumere gli altri.

Senonché, a questo punto qualcuno potrebbe ancora ribattere che persino tale atteggiamento di fronte all’altrui verità fa, per un cattolico, parte della sua verità; e che quindi egli non è libero di essere liberale oltre il punto, che la sua dottrina stabilisce come limite della sua possibilità di esserlo. L’argomento, così, sembra rivolgersi su se stesso, e ricondurre la questione sul piano tradizionale, e alla nota conclusione scettica circa le possibilità “liberali” dei “dogmatici”. Ma invece, se ben si guarda, esso svela qui la più profonda struttura del problema, meritevole perciò di rinnovata considerazione da parte di chiunque desideri risolverlo, dall’una o dall’altra parte del tavolo di discussione.

Non c’è dubbio, infatti, che una dottrina di tipo dogmatico (e quindi, poniamo, la dottrina della Chiesa cattolica, che qui assumiamo come esempio, per noi massimamente importante, di un simile tipo di atteggiamento mentale) comprenda, per così dire, anche un comandamento di dogmaticità, e quindi una condanna dell’opposta disposizione di spirito. Dogmatico, per un cattolico, è non solo che Dio sia Uno e Trino, o che il massimo bene sia la salvezza dell’anima nell’aldilà, ma anche che egli sia tenuto ad accettare scrupolosamente il modo in cui tali dogmi sono definiti dalla Chiesa. Riprendendo la metafora dei libri e dei loro portatori, anche quest’ordine di disciplina dogmatica, e quindi di conseguente allergia ad ogni eventualità di diverse obbedienze, fa parte del libro, e non soltanto dell’atteggiamento rispetto al libro. Lo stesso atteggiamento di fronte ai libri altrui diventa con ciò qualcosa di condizionato dal libro proprio. Il fedele non è libero di rispettare le religioni degli altri, perché è la sua stessa religione che gli impone di non rispettarle.

Ora, questo è proprio il punto su cui occorre concentrare l’attenzione. Secondo il modo di vedere tradizionale, tale ordine di obbedienza dogmatica, incluso nella stessa dottrina a cui esso richiede l’adesione obbediente, è una caratteristica intrinseca di questa dottrina medesima. È qualcosa che la pervade completamente, dando un aspetto peculiare a ciascuna delle nozioni che la compongono, allo stesso modo in cui, viceversa, lo spirito critico o logico o razionale permeerebbe da cima a fondo l’opposta dottrina del liberalismo. E quindi ciascuna di queste dottrine sarebbe, per così dire, legata alla sua legge, e quella imperniata sul motivo dell’adesione dogmatica a un’autorità non potrebbe mai accettare il principio dell’aperta comprensione critica, che è invece la regola della sua avversaria.

Sta di fatto, invece, che anche qui la presupposizione di un principio basilare e onnipermeante, il quale insiderebbe nella dottrina caratterizzandola da fondo, non è meno acritica di quella dell’ “idea centrale”, da cui, secondo i consueti manuali scolastici, ogni filosofo che si rispetti “dedurrebbe” “logicamente” il suo “sistema”. La realtà è che, come non esiste un solo filosofo il quale – studiato davvero e non schematizzato in formule mnemoniche – si conformi al modello di quel manichino sillogizzante, così non esiste affatto una necessità razionale, per la quale l’ordine di obbedienza dogmatica, scritto in una certa pagina di un libro con riferimento a ciò che è scritto in tutte le altre pagine, risulti inevitabilmente connesso con quest’ultimo. Anzi, se ben si guarda, ci si accorge che le cose stanno proprio all’opposto. Un ordine di adesione dogmatica resta semore qualcosa di inevitabilmente allotrio e estrinseco, a paragone della verità a cui esso stesso intende riferirsi.

Che nesso c’è, per esempio, fra la nozione dell’esistenza di un Dio il quale potrà, nella sua onnipotenza saggezza, premiare il nostro retto comportamento nella vita con una immortale felicità in un mondo diverso, e l’idea che egli stesso non potrà in tal modo salvarci se non avremo altresì obbedito a certi ordini, datici in suo nome da certi individui viventi con noi in questo nostro mondo? Il fatto che perciò si citi qualche testo considerato come espressione di tale sua volontà, quale per esempio la promessa fatta a Pietro di considerare legato o sciolto in cielo ciò che egli avrebbe legato o sciolto nella terra, non è per nulla concludente, sia perché questa promessa potrebbe essere stata fatta soltanto a Pietro e non ai suoi successori, sia, e soprattutto, perché Iddio potrebbe aver cambiato parere nel frattempo, non essendo, a quanto sembra, obbligato a non mutare opinione salvo che col permesso del Papa, o salvo espressa notifica a tutti gli interessati, compiuta per mano di ufficiale giudiziario. In questo senso, non c’è pretesa di autorità disciplinare, avanzata da corpi ecclesiastici, la quale non si manifesti contraddittorio in base all’elementare dilemma: - O questa autorità che vi arrogate è da voi stessi considerata come limitante l’autorità di Dio, e voi siete empi ed ipocriti, perché pretendete di essere più autorevoli e più potenti di chi nello stesso atto dite di venerare come Onnipotente. O non vi spingete a tale punto di empietà e di ipocrisia, e allora ciò che direte interpretando la volontà di Dio non potrà mai avere maggiore valore che quello di un alto consiglio dato dalla vostra coscienza all’altrui coscienza; e questa altrui coscienza, per umile che essa sia, e per ragionevole il riguardo che possa avere verso una presunta o possibile vostra maggiore esperienza in materia, avrò pure sempre il diritto di accettare o non accettare il vostro suggerimento, e di appellarsi in ultima istanza a quel che dopo sincero esame ritenga essere l’autentica volontà di Dio. In nessun caso potrete darle ordini tassativi: in nessun caso potrete considerare la vostra interpretazione del dogma come parte integrante e imprescindibile del contenuto di verità e del potere di salvazione del dogma stesso.

In nessun caso, cioè, la vostra volontà di disciplinamento dogmatico delle altrui coscienze di fronte al dogma potrà essere considerata come appartenente al dogma. Essa non appartiene alla verità, ma per così dire, deborda da essa, in quanto volontà di non permettere alla verità altrui di affermarsi col medesimo diritto che la verità propria. Ma con ciò siamo giunti al punto centrale del problema. Questa volontà di potenza, tendente all’asservimento dogmatico delle altrui coscienze alla verità che si sceglie come più valida, non è che l’esatta contropartita di quella volontà liberale di coesistenza e di dialogo che rispetta l’altrui verità e l’altrui libertà di professarla, pur cercando di capirla sempre meglio, ed eventualmente di accettarne quanto di volta in volta sembri degli di essere accettato.